Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 17,5-10. - In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Aumenta la nostra fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe».
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola?
Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu?
Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».
LECTIO di DON ALESSIO DE STEFANO
All’inizio del cap. 17 Gesù dà un insegnamento ai discepoli a conclusione della parabola del povero Lazzaro e del ricco Epulone. Ora, spiega Gesù, Lazzaro sono tutti i poveri che si trovano in mezzo a voi, quelli che il Maestro definisce “i piccoli” (mikros, v. 2), quindi i deboli di ogni genere. A chi si comporta come il ricco, sono riservati i guai (17,1). Il peccato dei ricchi della comunità di Gesù, viene definito scandalo (skàndala), poiché esso consiste di gesti e parole che creano un muro, un fatale impedimento, proprio per quei piccoli, che non permette loro, cioè, di accedere al messaggio cristiano autentico. Nelle Lettere apostoliche Paolo esorterà i fratelli più forti e maturi a non essere occasione di scandalo verso i fratelli più deboli (Rm 14,13; 15,1; 1Cor 8,9.13). Il comportamento che gli altri componenti della comunità debbono tenere nei confronti di coloro che scandalizzano è di perdonarli se si pentono. Il tempo, infatti, per pentirsi e per essere perdonati è qui e ora, prima di andare nel seno di Abramo (cf 16,22). Allora, infatti, non sarebbe più possibile essere perdonati, anche se ci si pentisse (cf 16,26). Questo è il tempo opportuno per perdonare: perdonare sempre, sette volte al giorno tanto per dire una cifra che esprime la pienezza. Quando c’è conversione non ci sono limiti al perdono. I discepoli si rendono conto che per fare quanto Gesù chiede, cioè di non comportarsi come i ricchi, di non scandalizzare, di perdonare chi si converte, di prendersi cura dei piccoli, di riconciliarsi e tenere unita la comunità, sia necessaria tanta fede. Con questa consapevolezza essi chiedono: Rafforza la nostra fede (17,6a). Gesù conferma che la fede può tutto (cf v. 6). La metafora dello schiavo in cui Dio appare come un padrone esoso, è per usare un paradosso e dare la misura della giustizia della fede che non è niente di più o niente di speciale. Avere cura dei piccoli e dei poveri e dare perdono ai ricchi che si convertono, significa semplicemente dire: «Non abbiamo fatto nulla di più di quanto dovevamo fare» (17,10). Il capitolo si chiude con un insegnamento di Gesù sui tempi della fine. Dove avverrà? (cf v.37). Questa domanda apre una ricerca tutta da fare, getta il lettore del vangelo nel clima degli ambienti giudeo-cristiani post-pasquali in cui si attendeva con ansia il cambiamento della storia di Israele e ormai erano passate almeno due generazioni - al tempo della scrittura di Luca - dalla morte e risurrezione di Gesù, ma non era successo niente. I discepoli vivono nell’attesa della sua parousia. Si sfata l’illusione di una manifestazione prossima dei giorni del Figlio dell’uomo. E quella di un Messia che si terrebbe nascosto nel deserto e che all’improvviso si sarebbe manifestato. Gesù spazza via tutte queste congetture e porta due esempi paradigmatici sulla fine, nella storia biblica: il diluvio e la catastrofe di Sodoma (cf vv. 26-29). Il giudizio di Dio avviene dentro la vita feriale e quotidiana senza segnali spettacolari. Sulla base di questa attitudine avviene il giudizio tra giusti e peccatori. Abbiamo un dittico di detti tra loro apparentemente contrapposti: il primo è un oracolo di guai (cf vv. 1-2), il secondo un’eventualità di perdono (cf vv. 3-4). L’occasione è data a Gesù dall’immagine del giudizio sull’uomo ricco (cf Lc 16,22-23). Nella Bibbia la comminazione di condanna non è sempre estranea all’eventualità del perdono. L’oracolo di guai - noto a Luca nel testo di Lc 6,24-26 e 11,42ss - è un sottotipo dell’oracolo profetico di condanna, il cui schema prevede l’elenco dei delitti cui fa seguito la comminazione della pena. Esso può essere, però, utilizzato in uno schema di lite bilaterale (il rib profetico) che prevede, alla fine, la possibilità del perdono. Una pista molto nota a Luca che l’ha usata anche nella parabola del padre che perdona (cf Lc 15,11-32; cf anche Lc 11,4). In tal caso si chiude con un “se ...” per dare un’apertura sul perdono che dipenderà dalla presa d’atto della gravità del delitto commesso e dal pentimento (cf v. 4). Una condizione che può essere vantaggiosa solo per chi sia ancora in vita. Per questo l’uomo ricco della parabola non può più essere perdonato. Nell’oggi della vita terrena è possibile e doveroso sia convertirsi, sia dare il perdono. Il numero simbolico di sette volte è già di per sé evocativo di quanto grande debba essere l’amore verso il fratello. Lo scandalo è un tipico delitto contro gli altri, specialmente i più piccoli e i più deboli e riguarda, spesso, coloro che operano nel campo religioso. Per questo è ricordato qui da Gesù come un simbolo di estrema gravità. Tutto viene dalla fede (vv. 5-10) - I discepoli sono rapiti dalle parole di Gesù sul perdono e mentre ne guardano la bellezza, avvertono quanto siano distanti dal poterla far propria. La domanda che fanno a Gesù è accorata e sincera: Rafforza la nostra fede (v. 6). Probabilmente essi si riferivano proprio alla fede necessaria per credere al perdono, cosa non sempre facile per chi fosse cresciuto all’ombra della legge. Ma Gesù li spiazza ulteriormente, prospettando situazioni addirittura plateali come effetto di un semplice granello di senape di fede. Talmente potente è la fede che basta un chicco minutissimo per sradicare un gelso: il parallelismo è antitetico e colpisce mettendo in contrasto il seme più piccolo con un albero gigantesco, il gelso, o sicomoro. Intrigante sarebbe pensare al sicomoro come l’albero simbolo dell’avidità di denaro, visto che su di esso salirà Zaccheo il pubblicano per vedere Gesù (cf Lc 19,4 Sycomoréan; qui: Sycamino, v.6). Zaccheo scenderà dal sicomoro e si recherà in casa con Gesù: la sua fede gli avrà già permesso di sradicare l’albero gigantesco del suo cuore corrotto.