Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 18,9-14. In quel tempo, Gesù disse questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore.
Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato».
Lectio di don Alessio De Stefano
Il fariseo e il pubblicano sono diventati, nella lingua italiana, una metafora lessicalizzata. Si dice fariseo di una persona che ritiene di essere in credito con tutti - Dio compreso! - solo perché rientra a tutto campo nei parametri delle osservanze e delle regole civili, morali, o religiose. Si tratta di persone supponenti e sprezzanti e che spesso hanno una coscienza ipocrita. Si dice pubblicano, invece, di un uomo senza scrupoli, sporco di compromessi ed estraneo ai circoli delle persone perbene, ma che potrebbe avere un’anima umile e, più facilmente dei virtuosi, sentire il bisogno di cambiare e chiedere perdono. Ed ecco la stupenda parabola del fariseo e del pubblicano ritratti mentre salgono al tempio per la preghiera. Il contesto suggerisce che la parabola sia una sorta di conclusione e commento della precedente, poiché il tema è lo stesso (= la preghiera) e il target per cui Gesù la formula sono i presuntuosi della giustizia, cioè coloro che pensano di essere giusti in virtù della legge di Mosè, mentre si verifica il contrario, che dei giudici laici e disonesti, siano più giusti e più vicini a Dio di loro (cf vv. 4-5). La scena invita semplicemente a guardare i personaggi e la loro postura: poche sono le parole, quasi nulle le azioni di movimento. Il lettore è uno spettatore che vede il fariseo ritto in piedi e il pubblicano che si batte il petto. L’orecchio sensibile della telecamera del Maestro entra, però, nel tempio del cuore, là dove ognuno dei due si intrattiene in un dialogo con se stesso e con Dio. Il fariseo, a testa alta, riflette se stesso e si compiace di essere diverso da tutti gli altri. Vede la distanza tra sé e i peccatori, e la sua virtù dinanzi alle leggi religiose, lo colloca in una invidiabile solitudine. Il fariseo prega in piedi (cf Lc 10,21) e conta sulla sua osservanza della legge, sui digiuni che fa due volte a settimana e sul pagamento delle tasse. Anche quel pubblicano che sta vicino a lui è avvertito come fosse in un altro mondo. C’è un abisso tra i due, agli occhi del fariseo. Il fariseo ringrazia Dio non per le sue opere, ma per le proprie (cf v. 12). Non conosce il volto di un Dio Padre di tutti, ma il suo dio è un semplice notaio, chiamato ad attestare la sua ortodossia e quindi la sua superiorità rispetto ai pubblicani ed alle prostitute. Rigido come la sua postura eretta, il fariseo disprezza il pubblicano il quale, invece, è libero e scomposto nel suo stare nel tempio. Con il capo ripiegato sul petto, quest’ultimo batte le mani sul cuore e ne fa uscire parole di supplica verso il Dio del cielo (v. 13). Quella supplica accorata è la sua grande ricchezza. Non ha null’altro da presentare a Dio per celebrarlo, niente di nobile, di virtuoso, niente di cui poter dire: «Questo è per te». Ma la supplica, sì. La preghiera sì che può averla anche un pubblicano. Egli usa la voce, le mani e il cuore per rivolgersi a Dio e il capo chino in cui si riconosce la presenza di Lui. E Dio, come fa sempre con chi insiste nell’invocarlo, viene a rispondergli, a giustificarlo, a salvarlo. Così, infatti, fu per Naaman, comandante dell’esercito del re di Aram (cf 2Re 5,1). Uno straniero malato di lebbra che riconosce che «non c’è Dio su tutta la terra, se non in Israele» (2Re 5,15) e si prostra soltanto davanti al Dio che l’ha guarito. Tipica del materiale lucano, nella parabola del fariseo e del pubblicano si esprimono i due poli della società di Israele, a partire dall’aspetto religioso. Le due categorie di persone che dovevano caratterizzare il popolo di Palestina sono utilizzate adesso in maniera simbolica - nella parabola - dopo che, per gran parte del testo lucano, sono state introdotte, chiamate in causa, messe a confronto, o, comunque, a contatto da Gesù. La prima occasione, quasi provocatoria, dell’impatto dei pubblicani con i farisei è la scelta che Gesù fa dell’apostolo Levi. Non solo Gesù ritiene degno di contatto un pubblicano; non solo il Maestro pranza a casa di un pubblicano, ma stima quel peccatore capace di essere un suo apostolo evidentemente più di un fariseo, esperto della legge (cf Lc 5,27ss). Pubblicano è anche Zaccheo che tra poco farà il suo ingresso sulla scena del cammino verso Gerusalemme. Il peccatore Zaccheo, pur non osservando la legge di Mosè, si mostrerà amante della giustizia molto più di qualunque Giudeo osservante (cf Lc 19,1ss). La parabola della misericordia, diretta a pubblicani e farisei, dice chiaramente che fonte della gioia in terra e nei cieli sarà il pentimento di un peccatore (cf Lc 15,7) e il figlio minore è senz’altro metafora dei pubblicani. Egli infatti, all’inizio della storia, lascia il Padre e se ne va a vivere in un «paese lontano» da lui, come a dire, lontano dalla religione e da Dio. Ma quella distanza non sarà un abisso dove precipiterà senza ritorno. Da essa il figlio minore risorgerà chiedendo perdono del suo peccato e tornando a casa. Il fariseo non conosce Dio, perché non ha bisogno di lui. Nel suo mondo non ci sono spazi aperti da attraversare, viaggi da fare dell’uno verso l’altro, non c’è umiltà di ricerca e di cammino. Il fariseo vive in una staticità dogmatica e morta. Il pubblicano, bussando al suo stesso cuore disperato (cf Sal 51,3), esce dalla desolazione del suo peccato alla ricerca della salvezza. E proprio nel basso del suo cuore - e non nell’alto della superbia religiosa - il lontano da Dio diventerà il suo paroikos, il suo vicino, il suo prossimo.