Dante e il bisogno di “conoscenza”
Viaggio con occhi curiosi tra le più celebri pagine della Letteratura Italiana e Antica
Come considerava Dante la necessità, valida per ogni uomo, di conoscere e scoprire/inventare nuove cose ed esplorare nuovi orizzonti?
Consideriamo questa serie di celebri terzine tratte dalla sua Commedia:
<<O frati,>> dissi <<che per cento milia
perigli siete giunti all'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
de' nostri sensi ch'è del rimanente,
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza.>>
(Inferno, XXVI, 135-142).
E queste altre:
<<Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia;
chè se possuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;
e disiar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch'etternalmente è dato lor per lutto>>.
(Purgatorio, III, 34-42).
Siamo in due contesti molto diversi:
le terzine tratte dal celebre canto XXVI dell'Inferno sono tra le più conosciute dell'intera Commedia: è Ulisse stesso a parlare e a dare spiegazioni riguardo la sua fine avvolta nel mistero. Secondo diverse versioni, Odisseo, dopo aver raggiunto finalmente Itaca, non pago della ritrovata serenità e del caro tetto e dell'amata Penelope, decide con alcuni suoi fidi compagni di ripartire in cerca di nuove avventure: è tratto tipico dell'eroe greco la sua eterna curiositas che lo spinge ad anteporre spesse volte la sete di conoscenza e di peregrinazioni al desiderio di casa.
Proprio durante questo suo viaggio, mosso dalla voglia di conoscere, si spinge oltre le Colonne d'Ercole (stretto di Gibilterra), limite naturale imposto dalla divinità. Odisseo e i suoi compagni, avendo così trasgredito la legge divina, fanno naufragio, la loro nave è distrutta ed essi stessi sono ricoperti dai flutti: terribile punizione, ma meritata per chi ha osato macchiarsi di hybris (tracotanza, superbia) venendo meno al rispetto degli agrapta nomoi, le leggi non scritte che regolano la morale della società greca.
Dante stigmatizza così il comportamento di Ulisse, punito dalla giusta ira di Dio, anche se non sembra immune dal dimostrare un certo fascino nei confronti del coraggioso eroe che per amore di conoscenza ha osato attraversare le Colonne d'Ercole.
Le terzine tratte dal canto III del Purgatorio, ci mostrano questa volta lo stesso Dante in preda a smaniosa curiosità: infatti, non riuscendo a spiegarsi la consistenza dei “corpi” delle anime e come queste possano, pur essendo diafane e apparentemente insensibili, soffrire le pene o godere della Beatitudine, il fiorentino disvela i suoi dubbi al suo duce (guida) Virgilio, che lo ammonisce severamente e lo invita a bandire dalla mente questa sorta di elucubrazioni.
Imperscrutabile è infatti l'operato divino e nessun uomo, per quanto saggio, può avere una qualche idea chiara e sicura sulla Divinità e i suoi disegni, altrimenti verrebbe meno la stessa necessitò di avere una Fede e lo stesso bisogno di avere come supporto la Divina Rivelazione (mestier non era parturir Maria). Già molti, in ogni tempo, hanno tentato indarno di indagare l'Essenza divina e sono morti con quest'accoramento.
Come si pone dunque Dante nei confronti della necessità di sapere?
Il Sommo, da buon uomo del suo tempo, alla stessa stregua dell'Antichità classica, considera la conoscenza e il sapere come strumenti indispensabili per una persona dabbene, soprattutto per chi è chiamato a ricoprire pubbliche funzioni.
Del tutto sconosciuta, anzi invisa al poeta è la nozione che si affermerà qualche secolo dopo di arte per l'arte: infatti per l'Alighieri ogni forma di arte ha un fine squisitamente didascalico, è un mezzo per poter accedere più facilmente alla conoscenza delle cose divine, per apprendere quei modi di fare, quei comportamenti, che fanno di un uomo un buon cristiano e un buon cittadino/suddito, rispettoso dei suoi simili, delle leggi di Dio e di quelle dei suoi vicari, il Papa in primis ma anche l'Imperatore; che fanno di una persona un benefattore del prossimo, persecutore dell'ignoranza e umile servo della Sapienza che proviene dall'alto.
Anche le esperienze di vita più personali sono sublimate e viste in una luce più ampia, arrivando ad avere una “morale” valida per ogni lettore.
Conoscere dunque sì, ma senza andare oltre al fine sopra esposto: qualora infatti il desiderio di conoscenza si riveli unicamente come desiderio di superbia, di predominio sugli altri, di capriccio ecco apparire la divina giustizia a punire il trasgressore dell'ordine precostituito.
Anche la Teologia dantesca è serva (in verità non sempre fedelmente) della Rivelazione, e umile dispiegatrice del Verbo divino.
State contenti, umana gente, al quia,-dice Dante per bocca di Virgilio-non affastellatevi la mente con tanti perché e tante spiegazioni inutili.
Ma Dante ha davvero fatto sempre così, non ha mai indagato il perché di una cosa, di un avvenimento storico, di un fatto?
Certo che no. Lo ha fatto però solo quando lo riteneva utile al prossimo (o, a volte, solo a sé stesso), senza mai oltrepassare il limite di quanto permesso a un essere umano, limite imposto da Dio ma anche dalla stessa fragilità umana.
Amerigo Simone