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Sanità senza ospedali e via libera ai privati

pasquale tridico.jpg(Foto: Pasquale Tridico)
Un’incertezza fissa accomuna il ponte sullo Stretto e l’Alta velocità ferroviaria per la Calabria, che ancora non ha il proprio tracciato. Il Ministro Salvini parla con enfasi smodata di entrambe le infrastrutture previste, segnate da una storia di rinvii in successione e finanziamenti aggiuntivi, di dubbi e problemi gravi ancora pendenti.
A dispetto delle tesi di Salvini, segretario di una Lega bifronte, secessionista nella sostanza e nazionalista nella forma verbale, ripensare i collegamenti all’interno del territorio calabrese costituisce una priorità assoluta, anzitutto per ragioni economiche e di tutela della salute. Migliorare la viabilità intraregionale è un’esigenza macroscopica, però non colta, tematizzata e discussa a dovere, né a livello locale né da parte del governo in carica, riluttante rispetto ai dati, all’analisi obiettiva. Nel centrodestra prevale il discorso a effetto sul ponte di Messina, segnato da una retorica celebrativa di vecchio stampo, strumentale a eludere il dibattito sullo stato dei Servizi sanitari e sulle possibilità di sviluppo economico delle regioni che l’opera dovrebbe collegare.
La Sanità calabrese è vittima di una progettazione a tavolino delle reti assistenziali, strutturate a Roma sulla scorta di modelli che da quasi 15 anni prescindono dalle specificità delle aree costiere e interne della Calabria, dalle condizioni stradali e climatiche, dai dati epidemiologici e dalla maggiore insistenza, nella regione del Sud, di patologie croniche, con percentuali di comorbilità superiori alla media nazionale.
Molte realtà locali della Calabria hanno risentito della suddetta impostazione standard, in parte ricavata su elementi delle regioni benchmark del Centro e del Nord, che però hanno minore isolamento geografico, viabilità migliore e mobilità agevolata. Tra le zone calabresi penalizzate, per esempio, si annoverano, oltre a quelle montane, di cui dirò più avanti, quelle disagiate di Trebisacce sullo Ionio e di Praia a Mare sul Tirreno, luoghi di frontiera, simboli di una sanità pubblica lungamente negata, nella fattispecie a due porzioni dell’Italia meridionale spinte negli anni verso un arretramento infondato, illogico, ingiusto: la prima servita dalla Statale 106 delle troppe morti per incidente; la seconda dalla Statale 18 della cementificazione selvaggia, simbolo di modernità apparente, ambigua, illusoria. Queste due strade sono state lasciate al loro destino, al pericolo pubblico, alla percorrenza variabile in relazione al periodo, al traffico, al caso; abbandonate alle corse in auto, agli urti violenti tra i veicoli, agli inevitabili ritardi delle ambulanze e spesso all’impossibilità di soccorsi efficaci, come la cronaca ha riportato molte volte.
Ubicati in territori con pesanti difficoltà di spostamento, i due ospedali di Trebisacce e Praia a Mare subirono la chiusura con l’avvio effettivo del Piano di rientro dai disavanzi sanitari regionali. Questi presìdi hanno poi vissuto vicende giudiziarie e amministrative antitetiche: sentenze di riapertura sistematicamente ignorate nel concreto, con resistenze all’adempimento da parte dello Stato e della Regione, assieme a incredibili lungaggini che non hanno permesso di recuperare i servizi presenti prima del riassetto della rete ospedaliera, firmato nel 2010 dall’allora presidente regionale e delegato del governo, Giuseppe Scopelliti, che tagliò 18 dei 73 ospedali calabresi, un migliaio di posti letto nel pubblico e circa 1700 nel privato.
Tuttavia, nel tempo fu obnubilata, se non addirittura sepolta, la lezione – derivante dallo smantellamento degli stabilimenti ospedalieri di Trebisacce e Praia a Mare – sull’importanza di avere nosocomi attrezzati al servizio di aree disagiate e frontaliere in senso lato; da ultimo anche per la premura, a livello centrale dopo la pandemia da Covid-19, di rilanciare l’assistenza sanitaria territoriale. Tuttavia, per raggiungere tale obiettivo, sarebbe servita un’interlocuzione profonda in Conferenza Stato-Regioni, purtroppo mancata, volta a riordinare le reti ospedaliere e quelle territoriali sulla base delle peculiarità delle singole aree regionali: epidemiologia, viabilità, clima, deprivazione sociale e così via.
Ancora, in sede di ultima definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, finanziato massicciamente dall’Ue grazie alla capacità negoziale del presidente Giuseppe Conte, non si è tenuto conto delle differenti condizioni tra le regioni italiane, che il centrodestra vorrebbe archiviare per sempre con il ddl Calderoli. Per l’effetto, in Calabria si è prevista una nuova assistenza sanitaria territoriale che, oltre a essere stata concepita all’ultimo momento, letteralmente in «zona Cesarini» e solo per non perdere i circa 130 milioni disponibili al riguardo, non può soddisfare le esigenze e i bisogni primari dell’utenza.
Non solo: se si dà una lettura veloce all’aggiornamento della rete ospedaliera predisposto di recente dal commissario governativo attuale, il presidente Roberto Occhiuto, si intuisce il destino delle aree più svantaggiate, cioè quelle montane, i cui ospedali – di Acri, San Giovanni in Fiore, Serra San Bruno e Soveria Mannelli – sono lasciati, anche in forza di una fiducia ideologica sulla telemedicina, alla progressiva dismissione finale; ridotti da anni a semplici strutture di Pronto soccorso con reparti di Medicina poco utilizzati e con pensionamenti in vista degli ultimi medici colà in servizio.
Eppure, la normativa vigente sugli standard ospedalieri consentirebbe di attivare, proprio in questi ospedali montani unità operative che, trattenendo i Drg, potrebbero produrre salute ed economie sanitarie, a partire da reparti di Chirurgia con posti di degenza e terapia intensiva. Lo stesso ragionamento si può svolgere per l'ospedale di Cariati, che serve pure zone montane ed è ormai simbolo nazionale di lotta civile per il diritto alla salute, grazie alle battaglie dell’associazione locale “Le Lampare” e dei cittadini residenti, come al coinvolgimento del musicista internazionale Roger Waters. Negli anni, invece, la Regione Calabria ha seguito politiche differenti, rinunciando a riqualificare tali presìdi montani – o, come quello di Cariati, utili ad aree montane – e strizzando l’occhio alle cliniche private, che in generale non danno molte prestazioni integrative nell’ambito del Servizio sanitario ma in larga misura si sostituiscono al pubblico, sino a supplirlo, per come il sistema è ciecamente organizzato.
La verità, allora, è che le zone disagiate e montane della Calabria sono – e in prospettiva lo saranno sempre di più – private di un’assistenza sanitaria efficace sul posto, spesso indispensabile e insostituibile, di là dalle mistiche correnti sull’elisoccorso, che non può essere una soluzione strutturale, per quanto utile. Nel frattempo, le difficoltà dei cittadini, residenti nei riferiti territori, di spostarsi verso altri centri sanitari della regione restano tali e quali, ponte sullo Stretto e Alta velocità ferroviaria a parte.
A questa ingiustizia inaccettabile, si aggiunge il vulnus della ripartizione del Fondo sanitario. Dal 1999, il criterio prevalente è fondato sul calcolo della popolazione pesata, che penalizza in generale le regioni meridionali, in particolare la Calabria, che, come qui già detto, ha molti più casi di patologie croniche e comorbilità. Secondo i calcoli di Mediass, un’attiva associazione di medici di famiglia che opera nel Catanzarese, per questo motivo la Calabria riceve circa 150 milioni in meno all’anno, rispetto al fabbisogno di cure per i pazienti cronici: cardiopatici, ipertesi, diabetici eccetera. A mia memoria, i dati di Mediass sono addirittura confermati da un decreto commissariale del 2015, in cui nero su bianco si riportano le maggiori percentuali di pazienti cronici che la Calabria ha in rapporto alla media nazionale. Allora c’è un problema di natura strutturale che viene sistematicamente eluso; rispetto al quale, come i fatti ci dimostrano, il commissariamento del Servizio sanitario regionale non è affatto una soluzione.
Per quanto qui esposto, bisognerebbe: 1) modificare i criteri di ripartizione del Fondo sanitario in base ai fabbisogni di cure nelle singole regioni; 2) riformare l’istituto del commissariamento sanitario, come già aveva proposto il Movimento 5 Stelle; 3) nelle aree montane, incentivare il lavoro nella sanità pubblica con misure e risorse statali aggiuntive; 4) sottrarre le spese sanitarie dall’obbligo del pareggio di bilancio, aspetto che andrebbe discusso nelle sedi europee e per cui è fondamentale avere parlamentari dell’Ue informati, avveduti e decisi; 5) modificare le reti assistenziali della Calabria sulla scorta delle omogeneità territoriali e non sulla base di schemi inutili del passato, per cui oggi vi sono ospedali funzionalmente collegati che distano addirittura 150 chilometri l’uno dall’altro; 6) responsabilizzare e sostituire i dirigenti della sanità che non diano risultati o che a vario titolo risultino inadempienti, come nei casi di datato aggiornamento dei Registri dei tumori; 7) dare spazio, a livello dirigenziale, ai nuovi laureati, ai giovani, ma con trattamenti economici congrui e investimenti mirati, magari recuperando le somme occorrenti con una legge nazionale che riporti in Calabria – come nel resto del Sud, che ne condivide la sorte – parte degli importi che la regione non ha avuto in virtù del vigente criterio di riparto del Fondo sanitario.
Pasquale Tridico
(Fonte: Quotidiano Del Sud, 15.04.2024)
(Inviato da "Le Lampare"
Le lampare Basso ionio
 

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