Il castello(fig. 1) fu costruito nel ‘500 insieme alle mura difensive dalla famiglia D’Avalos, governatori dell’isola fino al ‘700, dagli architetti Cavagna e Tortelli per volere del Cardinale Innico d’Avalos, e fu Palazzo Signorile e successivamente Palazzo Reale dei Borbone che, nel 1815 lo trasformarono in scuola militare e poi in carcere del Regno con successivi ampliamenti. Ed è merito proprio dei D'Avalos se l'attuale Terra Murata è oggi visitabile, perché il borgo era accessibile solo dalla spiaggia dell’Asino dopo punta Lingua. Grazie a questo collegamento si ebbe lo sviluppo urbano dell’isola, con la nascita dell’insediamento del borgo della Corricella(fig. 2) e la realizzazione del Convento di Santa Margherita Nuova(fig. 3). Il Palazzo Signorile fu dal 1734 confiscato dai regnanti borbonici che istituiscono a Procida il primo sito venatorio reale divenendo sia per Carlo III, ma in particolare per Ferdinando IV, residenza reale per la caccia, prima della realizzazione di Capodimonte e della Reggia di Caserta. Il complesso monumentale, dopo essere stato Palazzo Reale dei Borbone, tra i 22 beni allodiali della Corona, nel 1815 venne trasformato in scuola militare e poi nel 1830 in carcere del Regno con successivi ampliamenti che vennero realizzati dal 1840 per la nuova funzione di bagno penale, fino all’Unità d’Italia, quando divenne carcere di massima sicurezza dello Stato italiano. Tutto ciò fino al 1988, anno in cui il carcere chiuse e rimase abbandonato per alcuni decenni, fino a che l'edificio e gli spazi che lo circondano tutt'ora non vennero acquisiti dal comune nel 2013, che continuò i lavori per la messa in sicurezza del percorso e l'apertura delle visite guidate per turisti e residenti.
Il complesso Monumentale è costituito dal Palazzo D’Avalos, il Cortile, la Caserma delle guardie, l’Edificio delle Celle singole, il Padiglione delle Guardie, l’Edificio dei veterani, la Medicheria, la Casa del Direttore, il tenimento agricolo detto la Spianata di circa 18.000 mq.
Un sistema unitario ed inscindibile dalla emergenza monumentale rappresentata dal Palazzo d’Avalos che, travalicando l’interesse artistico e storico particolarmente importante per i suoi caratteri peculiari, che ne sanciscono l’appartenenza alla storia dell’architettura rinascimentale, assume anche il valore di testimonianza della storia politica, militare e urbanistica dell’isola. Il fatto che il Palazzo sia stato voluto dal colto Signore del Rinascimento, improntandolo a canoni di bellezza, e abitato da Carlo III di Borbone, re illuminato, fa contrasto con il luogo di pena che poi divenne: oggi una semplice visita lo rivela come un posto unico, un luogo dell’anima, in cui si avverte una forte tensione emotiva.
Infatti nell’ex carcere tutto è ancora lì, tra le celle e gli androni rinascimentali, consunto e fermato dal tempo: le vecchie divise, le scarpe sul pavimento polveroso e poi le brande arrugginite, le balle di cotone un tempo lavorate nell’opificio, e finanche il lettino per gli interventi ambulatoriali. Tutto giace uguale a se stesso, ma in fondo no, sotto la bellezza mai davvero decaduta di ampie volte e capitelli. Nel 1978 venne chiuso il carcere vecchio (Palazzo d’Avalos) e nel 1988 definitivamente abbandonato anche il carcere nuovo.
La storia recente dell’isola s’intreccia con quella del “Bagno penale”, nome originale dato da Ferdinando II, il quale alludeva, non certo alla possibilità dei reclusi di godere della contigua spiaggia della Chiaia, bensì perché con la detenzione ci si lavava delle proprie colpe.
Ospiti illustri sono stati il duca patriota Sigismondo Castromediano, a cui si deve la lapidaria frase sul penitenziario: “Un centro di orrore in un cerchio di bellezza”, il principe guerriero Junio Valerio Borghese, insignito per le sue ardite imprese di ben 26 medaglie d’oro al valor militare, il maresciallo Rodolfo Graziani, a lungo capo di Stato maggiore dell’Esercito, Giovanni Ansaldo, il mitico direttore de Il Mattino e tanti altri personaggi, da Cesare Rosaroll a Luigi Settembrini, i quali hanno saggiato l’opera di redenzione attraverso l’esercizio di umili lavori artigianali, dalla falegnameria alla tessitura del lino, oltre naturalmente alla coltivazione dei terreni limitrofi al penitenziario.
Ebbi l’opportunità di ammirare lo spettacolare panorama(fig. 4) e di visitare il complesso poco prima che venisse chiuso all’improvviso nel 1988, grazie all’amicizia con l’allora direttore Greco e ricordo ancora con commozione la lapide posta all’ingresso del piccolo cimitero: “Qui finisce la legge degli uomini e comincia la legge di Dio”, perché all’epoca, anche dopo la morte, gli ergastolani non potevano allontanarsi dall’isola e la “carogna” doveva riposare nel contiguo cimitero.
Dopo la chiusura, il complesso è precipitato in condizioni pietose, nonostante potrebbe rappresentare una cospicua risorsa per l’economia isolana e solo di recente è diventato meta di visite guidate.
La memoria narrante è quella di Giacomo Retaggio, che per 25 anni è stato medico del carcere e anche psicologo, ma soprattutto custode di aneddoti e storie, legate alle vite dei 500 detenuti, di cui 50 ergastolani, che hanno abitato queste mura. Tra queste stesse mura, che sono state anche utilizzate come set cinematografico, nel 1971, quando Nanni Loy girò parte del film "Detenuto in attesa di giudizio", con protagonista Alberto Sordi.
Camminando tra le enormi stanze della struttura di Terra Murata, sembra che il tempo si sia fermato e non è difficile imbattersi in giacche e scarpe impolverate(fig. 5), abbandonate lì dagli ultimi reclusi, che li adoperavano e li trovavano lavati una volta al mese sulle brandine(fig. 6). L'intera visita dura circa due ore, dopo aver ammirato il vetusto edificio dal mare(fig. 7), si varca l’ingresso(fig. 8 – 9) si attraversa il cortile(fig. 10), si ammira la facciata rinascimentale del nobile palazzo (fig. 11), la caserma delle guardie, l’edificio delle celle singole, l’edificio dei veterani, la medicheria(fig. 12) e il tenimento agricolo(fig. 13), dove nasceranno orti sociali. E come non notare anche quel che resta della camionetta che accompagnava i nuovi prigionieri dal porto, proprio come la descriveva Elsa Morante nel suo romanzo "L’isola d’Arturo", attraverso gli occhi del giovane protagonista.
Gli esterni sono in condizioni pietose(fig. 14 – 15 – 16 - 17), ma non sono inferiori agli interni, con lunghi corridoi(fig. 18 – 19 - 20), stanzoni con brandine arrugginite(fig. 21) e vecchi tavoli da lavoro(fig. 22).
Un luogo unico tra la bellezza del monumento rinascimentale e la durezza del luogo di pena che apre al pubblico diventando luogo comune, grazie a un lavoro collettivo e dal basso delle benemerite associazioni, che conducono i visitatori, avvertendoli:” Lasciate ogni speranza voi che entrate”.
Per chi non mi conoscesse segnalo al lettore che, per motivi inconfessabili, sono un esperto dell’argomento, al quale ho dedicato tre libri, che in rete hanno avuto decine di migliaia di followers e che tutti possono consultare digitando i links:
http://achillecontedilavian.blogspot.com/p/una-favola-da-rebibbia.html
http://achillecontedilavian.blogspot.com/2018/11/le-tribolazioni-di-un-innocente.html
http://achillecontedilavian.blogspot.com/2020/04/grand-hotel-carcere-di-rebibbia.html
Achille della Ragione