Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 3,16-18
16Dio, infatti, ha amato il mondo al punto da donare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non si perda ma abbia la vita eterna. 17Dio non ha inviato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo con una condanna, ma perché il mondo attraverso lui possa essere salvato. 18Chi crede in lui non è giudicato: chi, invece, non crede è già stato giudicato perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
Lectio di don Alessio De Stefano
Introduzione al capitolo Alla questione cruciale della relazione tra i segni, la fede, il piano di Dio e l’identità di Gesù comincia a rispondere il cap.3. Prima il dialogo con il «giudeo» e fariseo Nicodemo (vv.1-21), poi la controversia nata tra «un giudeo» e i discepoli di Giovanni in merito ai rituali di purificazione (vv. 22- 36), permettono a Gesù di approfondire la rivelazione del piano salvifico di Dio e delle dinamiche del suo realizzarsi (vv.10-21), e al suo testimone Giovanni, che parla qui per l’ultima volta, di proclamare definitivamente la superiore dignità, nell’essere e nella missione, di Gesù Figlio di Dio e vero Sposo di Israele (vv.27-36). La profondità e la novità della rivelazione cristologica veicolata nei dialoghi e discorsi dei protagonisti appare anche dal modo in cui, per la prima volta nel racconto, emerge la contrapposizione tra ciò che/chi appartiene e origina dalla «terra» o dalla sola «carne» della creatura mortale e ciò che/chi proviene dal «cielo», «dall’alto» e viene da Dio (cf vv. 3.6.12.27.31). Con tale linguaggio viene espressa una precisa consapevolezza: l’uomo, lasciato alle sue sole forze, se non è animato e «rigenerato» dallo Spirito di Dio non può in alcun modo comprendere e vivere il «regno di Dio». Insieme al Padre e al Figlio, dunque, torna in primo piano, protagonista della rivelazione e dell’azione salvifica di Dio, anche lo Spirito (vv. 5-7.34).
La rivelazione di Dio nel Figlio e la risposta degli uomini (vv.11-21) - La sapienza del regno che Gesù «testimonia» a Nicodemo e a quanti egli rappresenta non è, dunque, di facile «accoglienza» e comprensione (v.11). Già per accoglierla è necessaria l’apertura relazionale a Dio e al suo inviato propria dell’atto di fede, disponibilità docile, orante ed attenta alla novità dello Spirito e all’azione divina. Questa sapienza, tuttavia, potrebbe già essere appannaggio di un maestro di Israele che dovrebbe sapere che i misteri della volontà di Dio sono accessibili all’uomo solo grazie al dono della Sapienza e dello Spirito dall’alto (cf Sap 8,21-9,18). È in questo senso, forse, che va compresa la domanda incalzante di Gesù al v.12: il messaggio sulla necessità e sulla possibilità di un rinnovamento profondo dell’uomo grazie al dono dello Spirito riguarda «le cose della terra» perché appartiene già alle parole annunziate sulla terra ad Israele nelle Scritture (cf Ez 36,25-27). Ciò che Gesù si appresta ora a rivelare, invece, appartiene «alle cose che stanno in cielo» e che non potrebbero essere rivelate che da colui che «dal cielo» proviene. Ma come potrebbero essere credute se quelle già a disposizione della fede non lo sono ancora state (cf 5,47)? Sullo sfondo aperto di questa domanda, che è anche una ulteriore provocazione al suo interlocutore, Gesù si presenta ora a Nicodemo come l’unico in grado di rivelare i modi dell’agire escatologico e sovrano di Dio. Lo fa anzitutto riferendosi, per la seconda volta nel vangelo (cf 1,51), alla figura enigmatica del Figlio dell’uomo, alla sua provenienza e autorità celeste e al suo destino di innalzamento perché chi crede in lui possa avere la vita (vv. 13-15). Lo fa poi identificando il Figlio dell’uomo con il Figlio unigenito di Dio inviato per la salvezza del mondo (vv. 16-18). Lo fa, infine, svelando il dinamismo dal basso, profondamente antropologico, dell’azione di giudizio divina: Colui che ha amato il mondo fino al punto da mandare il Figlio unigenito, uomo tra gli uomini, non giudicherà il mondo che a partire dal bisogno che gli uomini hanno della luce e dalla loro capacità di aprirsi, rischiando e credendo, al dono della luce resasi prossima nella loro stessa carne. Un giudizio di condanna sarà già stato sperimentato da chi, non rinunciando alle opere malvage e non volendole smascherate dalla luce, rimarrà nella sua stessa tenebra (vv. 19-21). In nessuno dei tre enunciati sul Figlio dell’uomo, sull’invio del Figlio e sul giudizio del mondo Gesù parla di sé in prima persona: al suo interlocutore Nicodemo, ormai in ascolto silenzioso, è lasciato il tempo per appropriarsi del suo linguaggio di rivelazione e per elaborarne i significati e i riferimenti. Tanto il narratore che il lettore, però, sanno che è di lui che si parla ogni volta: lui è il Figlio dell’uomo che dovrà «essere innalzato» sul legno, così come su un vessillo, a mo’ di «segno» (cf Nm 21,8 nella traduzione della LXX), era stato elevato il serpente da Mosè perché tutti gli Israeliti morsi dai serpenti nel deserto, in punizione della loro incredulità, potessero essere guariti (cf Nm 21,4-9; Sap 16,5-12); lui è il Figlio unigenito donato non per il giudizio ma per la vita del mondo (cf 1,14.18); lui, infine, è la luce venuta nel mondo perché gli uomini possano, realmente, partecipare della sua vita (cf 1,4-5). Per gli uomini, in fondo, non c’è altra condizione di accesso al regno che l’atto del «credere», verbo ripetuto per cinque volte nei vv. 13-18: «chiunque crede» nel Figlio dell’uomo innalzato, nel Figlio inviato, «ha vita eterna». È richiesto solo l’atto di fede in un Dio che «ha amato il mondo» al punto da donare il suo Unigenito nelle mani degli uomini quale uomo esposto anche alla possibilità del rifiuto, della tenebra e della malvagità. Altro ostacolo non c’è alla salvezza e alla vita che il rifiuto opposto dagli uomini alla luce, effettivamente sperimentato dalla Luce venuta nel mondo (cf 1,4-5.9-11). Ma, a «giudizio» ormai accaduto, dichiarato, sperimentato dal basso, dall’interno della trama delle relazioni umane nel mondo e di opere di menzogna nascoste fino alla fine, il Figlio innalzato non resta sempre quale segno di salvezza e rivelazione dell’amore divino per chiunque possa e voglia volgere lo sguardo verso di lui (cf 19,37)? L’affermazione con cui il discorso si conclude è una certezza liberante e, per il visitatore notturno di Gesù, una sicurezza incoraggiante: chiunque «fa la verità» «viene», come lui, «verso la luce» e non ha nulla da temere; le sue «opere», al contrario di quelle malvage, possono apparire in piena luce perché già «operate in Dio», già partecipi del dono vivificante della Luce venuta nel mondo.