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Vangelo del 3 Aprile 2022 - Quinta domenica di Quaresima

cristo e l'adultera - Preti.jpgVangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 7,53-8,11

53 E andarono ciascuno a casa sua. 1 Ora Gesù se ne andò al monte degli ulivi. 2 All’alba però si presentò di nuovo al tempio e tutto il popolo veniva da lui e seduto insegnava loro. 3 Ora conducono, gli scribi ed i farisei, una donna sorpresa in adulterio e, postala in mezzo, 4 gli dicono: Maestro, questa donna è stata sorpresa nel fatto stesso mentre faceva adulterio. 5 Ora nella legge Mosè ordinò di lapidare quelle così e tu che dici? 6 Ora dicevano questo per tentarlo, per avere di che accusarlo. Ora chinatosi, Gesù scriveva col dito per terra. 7 Come insistevano nell’interrogarlo, si drizzò e disse loro: Chi di voi è senza peccato, per primo getti su di lei la pietra. 8 E di nuovo, chinatosi, scriveva col dito per terra. 9 Essi allora avendo udito se ne andarono uno per uno, cominciando dai più vecchi e rimase solo e la donna che era nel mezzo. 10 Ora Gesù drizzatosi disse a lei: Donna, dove sono? Nessuno ti condannò? 11 Ora ella disse: Nessuno, Signore. Ora disse Gesù: Neppure io ti condanno. Va e da ora non peccare più.

Lectio di don Alessio De Stefano

Il giudizio che salva dalla morte 7,53-8,11 - L’ultimo versetto del cap. 7 costituisce l’introduzione all’episodio dell’adultera (c.8) sottratta alla lapidazione, che non apparteneva originariamente al testo giovanneo. Infatti il racconto mostra caratteristiche stilistiche e terminologiche che sono più lucane che giovannee (ad es. il riferimento agli «scribi», che non compaiono mai come pro­tagonisti in Giovanni, o quello al «monte degli Ulivi», altrove mai menzionato nel vangelo) e interrompe la sequenza narrativa della sezione di Sukkot che continua, invece, a partire da 8,12 drammatizzando l’insegnamento di Gesù durante la festa e le reazioni ad esso da parte di farisei e Giudei. La collocazione dell’episodio in questo contesto giovanneo, però, si può spiegare e valorizzare perché connessa all’attività di Gesù nel tempio, ai temi del giudizio giusto e del peccato (cf 7,24; 8,15-16.21.24.34.46), della legge e della sua applicazione (cf 7,21-23) e persino per la paradossale analogia tra la situazione drammatica della donna sorpresa in flagrante adulterio e quella di Gesù chiamato a farsene giudice: entrambi, infatti, scampano alla morte per lapidazione riservata, secondo la legge, agli adulteri (cf Dt 22,23-24) e ai bestemmiatori (cf Lv 24,15-16). Posto nel contesto giovanneo, in ultima analisi, l’episodio traduce in maniera plastica quelli che dovrebbero essere i modi e gli esiti del giudizio giusto chiesto da Gesù stesso ai suoi interlocutori (7,24): un giudizio veramente fedele a Dio e all’uomo, formulato secondo l’intenzione ultima della legge, una finalità di vita e non di morte; un giudizio come quello praticato da Gesù su quelli che, pure, ne vorrebbero la morte (8,26). Di che modi e di che esiti si tratta, dunque? Dopo i versi introduttivi (7,53-8,2) che insistono sulla presenza e sull’insegnamento diuturno di Gesù nel tempio (cf Lc 19,47-48; 21,37-38), il racconto descrive l’iniziativa presa da scribi e farisei per incastrarlo chiedendogli di pronunciare il suo giudizio di «maestro» su un caso che essi, in realtà, sono convinti di sapere già come dovrebbe essere risolto secondo gli ordini mosaici ma sul quale vogliono «mettere alla prova» Gesù per «accusarlo» (vv. 3-6a). Già la presentazione del caso mostra quanto la relazione tra i soggetti in campo - da un lato la donna, Gesù, e scribi e farisei; dall’altro Mosè con la sua legge - sia impostata falsamente. La donna è posta «nel mezzo» dai suoi accusatori e giudici ma, in realtà, la sua collocazione è solo strumentale; a scribi e farisei interessa formulare un giudizio negativo su Gesù, non sulla donna! La donna adultera e la legge di Mosè su donne «simili» sono un falso tema addotto in modo strumentale. A Gesù, apparentemente, viene chiesto di pronunciarsi sul caso della donna ma, in realtà, si cerca di misurare e giudicare lui circa il proprio rapporto con Mosè («Mosè ci ha ordinato... tu, quindi, che dici?»)! La relazione vera di cui è questione non è quella tra la legge e la donna, mero strumento per la condanna di un altro, ma quella tra Gesù e scribi e farisei. La reazione di Gesù, prima solo gestuale e poi anche verbale (vv. 6b-8), mette in chiaro i veri soggetti in causa nella relazione costruita. Il gesto di tracciare silenziosamente dei segni per terra col dito, sottolineato all’inizio (v. 6b) e alla fine (v. 8) dell’unità come la risposta fondamentale alla domanda, potrebbe indicare sia la sua intenzione di dissociarsi dall’accusa della donna che quella di dissociarsi dai suoi accusatori. Chinato per terra, Gesù sottrae il suo volto ai suoi interlocutori. Si potrebbe pensare al costume dei giudici romani di scriversi per sé la sentenza prima di pronunciarla o, secondo alcuni, a un giudizio pronunciato da Gesù sugli stessi accusatori della donna: chi abbandona il Signore, sorgente di vita, merita di essere scritto sulla polvere della terra (Ger 17,13). Il fatto, però, che non si dica nulla sul contenuto della scrittura di Gesù fa del suo silenzio il messaggio di maggior valore: esso rimanda gli interlocutori all’esigenza di assumersi personalmente e autonomamente la responsabilità davanti alla legge e davanti alla donna, ora realmente posta al centro dell’attenzione. La risposta verbale, provocata dall’insistenza stolta e sorda degli interlocutori, esplicita ciò che nel gesto silenzioso era implicito: la condanna a morte, prescritta dalla legge, sia pronunciata da quanti davanti alla legge si riconoscono puri da ogni peccato; questi, poi, guardino diritto alle persone! Nei vv. 9-11, dunque, gli interlocutori tendenziosi si dissolvono uno per uno («dove sono?»), ricondotti a se stessi e alla propria responsabilità di fronte all’altro e alla legge, e rimangono l’uno di fronte all’altra i soggetti autenticamente capaci di relazione e di responsabilità: Gesù «lasciato solo» e la donna prima «sorpresa» in adulterio, posta non più nel falso centro definito da chi la usava come strumento, ma al centro vero della cura dell’altro. Questi non le si presenta come un sentenziatore di condanna, ma come chi è capace di sostenerla nella ripresa di un cammino libero dal peccato («non peccare più», cf 5,14) e aperto alla vita; maestro, dunque, di una legge e di un giudizio che guardano in faccia alle persone per la loro vita e non per la morte (cf Ez 33,11).

(Il dipinto nella foto in alto (1680)  è del pittore calabrese Mattia Preti, si trova alla Galleria Spada, Roma)

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