Il testo che segue è il quarto capitolo del libro di Alberindo Grimani "146 Boulevard Haussman" nel quale l’autore narra l’incredibile storia di Emanuele Brunatto, il grande difensore di Padre Pio, nella Francia occupata dai nazisti per salvare i perseguitati dalla Gestapo, soprattutto ebrei. A guerra finita, fu condannato a morte per collaborazionismo ma poi, grazie alle testimonianze ebree, fu riabilitato e si stanno raccogliendo le prove per inserire il suo nome tra i 'Giusti tra le nazioni'. Su questo personaggio molto controverso, stimolato da un caro amico, mi è capitato ultimamente di leggere alcuni libri tutti di Raffaele Augello che, tra l’altro, ha tradotto dall’originale francese la biografia di Emanuele Brunatto. In diversi volumi viene raccontato l’episodio che ha visto il Brunatto agire a Cassano Ionio in qualità di “investigatore privato” per conto di don ORIONE, onde salvare un religioso della sua congregazione, ingiustamente accusato di aver stuprato e ucciso una bambina.
Poiché a Cassano ho raramente sentito parlare dell’opera di don Orione presso il Santuario della Madonna della Catena, mi è sembrato opportuno divulgare quel terribile accadimento per inquadrare nel modo giusto certi fatti similari per cui la cittadinanza di Cassano è rimasta “scandalizzata” e accaduti successivamente, come il pastorello di 12 anni ucciso nella campagna attorno al paese negli anni ’50 e, ultimamente, la barbara esecuzione, solo pochi anni fa, del piccolo Cocò. Pur con motivazioni diverse la violenza gratuita verso chi non può difendersi, da queste parti, non è una novità.
L’infame accusa a padre Gil
<<Correva l’anno 1928, il giorno in cui si onorava San Luigi Gonzaga, il 21 giugno, giovedì, e si festeggiava Don Orione. In banchetto aveva riunito i suoi principali collaboratori, benefattori ed amici, presso la sua residenza di San Pietro in Vincoli. Don Orione aveva animato la conversazione con la sua abituale verve e il suo disarmante buonumore, meravigliandosi quando una rumorosa rappresentanza di collegiali aveva invaso la sala dei tradizionali auguri, ed aveva accolto con buona grazia l’inevitabile sequela di discorsi, nonché risposto con qualche sua emozionante replica a tutti coloro che gli confidavano dubbi e Segreti personali. Ad un tratto Don Orione, chinandosi verso Emanuele che era stato invitato alla festa, gli disse sottovoce: venite nella mia camera, ve ne prego… vi devo parlare in privato. Appena lì giunti egli chiuse la porta alle sue spalle e quindi si afflosciò su una poltrona, scoppiando in lacrime. Don Orione, dopo aver dato sfogo al suo dolore così ben mascherato durante i festeggiamenti, mostrò ad Emanuele un articolo del quotidiano “il popolo d’Italia” (il giornale di Mussolini), ed in cui in un trafiletto era riportata la notizia di un prete spagnolo - padre Gil - che era stato arrestato presso un eremo calabrese con l’accusa di aver rapito, violentato e assassinato una bambina. Don Orione spiegò:
“padre Gil (nella foto) è un sant’uomo. Nel 1909 egli compì, per devozione, il viaggio dalla Spagna fino a Roma, a piedi. Entrò quindi nella nostra congregazione e soggiorno a Roma per qualche anno. Ultimamente l’avevo invitato, insieme ad un fratello laico, a prestare i suoi servizi ecclesiastici presso un santuario, quello della Madonna della catena, un eremo nei pressi di Cassano allo Jonio, in Calabria. Padre Gil è un mistico, porta il cilicio e dona la sua disciplina come il sangue. La vita in presbiterio gli sembrava troppo facile e comoda, ed egli passava spesso delle settimane intere in una grotta, dormendo sul duro terreno, pregando e digiunando come facevano i padri del deserto... Alla festa del santuario giungono numerosissime persone dai paesi limitrofi, per assistere e partecipare alle cerimonie religiose e pranzare nei posti vicini. Quest’anno, una piccola bambina, improvvisamente scomparve durante la festa, e fu in seguito ritrovata, violentata e assassinata, non lontano dall’eremo. Come autore del crimine, arrestarono padre Gil, insieme al fratello laico, accusato di complicità. Sono sicuro dell’innocenza di questo meraviglioso religioso e se mi domandassero di marciare sui carboni ardenti fino a Cassano, io partirei immediatamente… Adesso! Appena ho letto la notizia ho bussato a tutte le porte, ho supplicato le più alte personalità della Chiesa, ma nessuno ha voluta aiutarmi per salvare questo innocente. “La giustizia in Calabria è sequestrata” mi hanno risposto dappertutto. - La giustizia - voi comprendete, in una regione ove l’autorità civile è rinomata per il suo odio contro il clero. So che posso contare su di voi… e fate quello che meglio credete, disponete pure di tutto quello che la congregazione possiede… Sono disposto a vendere tutte le case e le proprietà, se esso servirà per salvarlo!“-
Basta - rispose Emanuele - solo una lettera per il vescovo… e la vostra benedizione… partirò domani stesso per Cassano.
Emanuele non aveva la minima speranza di ottenere un mandato dall’autorità religiosa e monsignor Bevilacqua, che era subito andato a trovare, l’aveva accolto con queste parole: “avete visto cos’è accaduto al povero Don Orione?… Che bella tegola e caduta sulla sua testa! Questa volta credo che la sua congregazione sia ben servita!”
Monsignor Bevilacqua spiegò ad Emanuele che la costituzione della congregazione di Don Orione non era ancora stata ufficialmente riconosciuta dalla Santa Sede, malgrado le numerose iniziative benefiche che essa aveva intrapreso in tutti quegli anni. Questo perché questa congregazione, oculata e previdente, oltre alle tre Voci Ecclesiastiche rituali, ne avevo una quarta, la stessa dei gesuiti: l’obbedienza particolare al Sovrano Pontefice, ne fece la fortuna ed innalzò di potere la compagnia di Gesù. Si comprende quindi -senza alcuno sforzo particolare - che questa congregazione, non ancora riconosciuta, non fosse ben condivisa.
Emanuele però sapeva che Don Orione cercava le responsabilità, piuttosto che i privilegi: servire senza essere servito. Così intelligente egli ispirava con lucidità i bisogni attuali della Chiesa. Egli intendeva mettere al servizio del Papa “numerosi uomini nuovi”, poveri e semplici, dotati di buon senso terreno, agguerriti più per l’integrità della fede, che per la loro “dotta cultura” e per la loro “sottigliezza retorica”, più fiduciosi nel potere della provvidenza, che nell’appartenenza a un clan potente… Un ritorno alle sorgenti che doveva fatalmente indirizzare contro di esso tutti quelli che avevano la tendenza ad allontanarsene. Vi è da dire poi che la “gente potente” alla corte pontificia (gli stessi gesuiti), con il loro “sacro zelo” ed altro, si sentivano presi di mira dal buon progetto di Don Orione. Lo sconvolgente affare di Cassano poteva dunque servire loro da pretesto per provocare il rigetto della nuova costituzione dell’ordine, emettere un serio dubbio sull’attività attuale dell’opera di Don Orione.
Per colmo di disgrazia l’arresto di padre Gil era stato montato ad arte dalla polizia italiana che voleva riabilitarsi da uno smacco clamoroso subito nella ricerca di un criminale che aveva violentato più di una dozzina di bambine nei sobborghi periferici di Roma. La polizia aveva arrestato un giovane viaggiatore di commercio, Gino Girolimoni e, su degli indizi piuttosto fragili, lo aveva incolpato di questi efferatissimi assassinii. Il disgraziato aveva trascorso più di un anno in prigione e subito le peggiori sevizie nel corso degli interrogatori di terzo grado, ma le prove indiziarie contro di esso erano infine cadute, l’una dopo l’altra, ed aveva riavuto finalmente il rilascio compensato con una forte indennità.
Un ispettore generale della polizia - venuto espressamente da Roma - confermò in pieno l’inchiesta alla polizia locale coordinata dal commissario Barranca, dichiarando inoltre che egli aveva presupposti sufficienti per incolpare padre Gil anche degli assassinii delle 12 bambine romane… Il povero prete aveva infatti soggiornato a Roma, all’epoca in cui i crimini erano stati commessi.
Emanuele, prima di partire per Cassano, si fece incaricare di un servizio giornalistico sul caso Gil, dal giornale ultra-fascista “L’impero”, di cui era un collaboratore occasionale. Arrivato sul posto, egli fece il punto della situazione: il giorno della festa al santuario, dopo le cerimonie della mattinata, la folla dei fedeli si era sparpagliata negli uliveti, per pranzare sull’erba alla stessa ora il vescovo, attorniato dalle autorità religiose e civili, partecipava ad un banchetto servito nel presbiterio.
Durante il pasto, il fratello laico fra Gaetano non aveva mai abbandonato la cucina, ove preparare i pasti con l’aiuto di alcune persone del paese vicino.
Il padre Gil era naturalmente a tavola, da cui non si allontanò che per un quarto d’ora, per gettare una rapida occhiata all’interno della Chiesa e nelle cucine, ritornando subito dopo nel presbiterio, al suo posto accanto al vescovo e agli invitati (tra i quali il comandante della locale stazione dei carabinieri) con cui si era incamminato poi, alla fine del pranzo, in chiesa, per le cerimonie del pomeriggio. Tutti avevano notato il ritorno a tavola di padre Gil: nello stesso momento, un piccolo treno, che attraversava il bosco in prossimità del santuario, aveva lungamente fischiato, per segnalare il suo passaggio.
Era stato in questo momento che i parenti della bambina - il cui nome era Maria Ferrara - avevano constatato la sua scomparsa. Le ricerche iniziarono immediatamente e proseguirono per una settimana intera, sotto la direzione instancabile del padre della bambina, sottufficiale della milizia fascista. I carabinieri, aiutati da dei cacciatori con i loro cani, la cercarono lungamente, ma senza approdare a nessun risultato. La polizia criminale presero allora in mano la situazione e la investigazione concludendo l’indagine con la dichiarazione di colpevolezza di padre Gil e di fra’ Gaetano. I due furono arrestati e tradotti in manette a Castrovillari e dovettero attraversare il paese, sempre seguiti da una numerosa folla che voleva linciarli sul posto. Dopo il loro arresto si trovò il cadaverino della bambina in una fossa scoperta destinata ad accogliere una pianta di ulivo ad un centinaio di metri di distanza dal santuario. La piccola vittima aveva una ferita alla testa ed una dozzina circa nella zona inguinale assai profonde inferte quasi certamente con un grosso pezzo di legno. Nessuno si spiegò come il cadavere fosse potuto sfuggire ad una settimana di ricerche frenetiche, ed inoltre era stato rinvenuto in un tratto di terreno battuto più volte, sia dai carabinieri che dai cacciatori con i loro cani. Il prefetto si complimentò con il commissario, e il ministro degli interni si complimentò con il prefetto. Dall’alto in basso della scala gerarchica e di potere, la vicenda era stata già giudicata, ed Emanuele non poteva dunque che agire sulla sorpresa, sulla velocità. Avviò quindi una sua personale indagine. Tutta la questione ruotava, evidentemente, attorno a quel quarto d’ora in cui padre Gil - secondo la polizia - avrebbe avuto a disposizione per operare il rapimento, commettere la violenza, uccidere la bambina, nascondere infine il cadavere e arrivare in tempo per il dessert! Emanuele si recò quindi dai Ferrara: il padre era momentaneamente assente e fu la moglie che rispose alle domande del “giornalista di Roma”. Mentre poneva le domande alla madre della piccola vittima Emanuele notò che la figlioletta di 12 anni seguiva il loro colloquio con una certa apprensione e nervosismo. Si voltò quindi verso di essa, a bruciapelo, le domandò:
“perché hai lasciato correre Maria dal bosco appresso al treno?”
“No signore” rispose la ragazzina “non ha corso appresso al treno, perché giocava con me, quando il treno passò.“
E come sai che il treno passava giusto in quel momento, se non lo potevi vedere, dal posto in cui stavate giocando?” Incalzò allora Emanuele.
“Perché esso fischiò, e io dissi a Maria di non aver paura, perché era solamente il treno” rispose prontamente la ragazza.
Emanuele aveva ormai in mano la prova dell’innocenza di padre Gil, ma la sua inchiesta non passò inosservata: la polizia sapeva che un reporter ispezionava minuziosamente i luoghi, interrogava i testimoni, prendeva misurazioni. Troppo zelo per un semplice reportage giornalistico. I poliziotti si misero alla ricerca ma Emanuele, fiutando il pericolo (non aveva documenti da vero giornalista) evitava accuratamente di incontrarli. Si recò quindi di nascosto nei pressi del santuario per un rilievo fotografico, allorché fu raggiunto dal padre della vittima: era un uomo piccolo di statura, di carnagione scura, di facile parola e … puzzava di vino.
Portava l’uniforme fascista, il pugnale pendeva dal cinturone da un lato e una grossa rivoltella ballonzolava dall’altro lato.
“Ecco il colpevole” pensò tra sé Emanuele, non riuscendo però a comprendere il perché di quella personale intuizione.
Avvicinandosi all’uomo, egli percepì il suo nervosismo e la sua agitazione… Un improvviso ed appropriato shock avrebbe potuto smascherare l’uomo e fornire un segno di sicura denuncia.
Emanuele volle tentare la sorte, il posto e l’ora erano propizi: erano in prossimità dell’oliveto, ai bordi della tragica fossa, erano soli e la sera cadeva sulle colline deserte.
Emanuele si rivolse con rudezza al Ferrara e gli chiese in maniera brusca e decisa:
“Camerata, due innocenti sono in prigione ed io conosco il colpevole… Vuoi che ti dica il suo nome?”
Il Ferrara portò allora la mano alla rivoltella. Nello stesso momento Emanuele vide in lontananza nella valle, due carabinieri che intraprendevano il cammino per il santuario, ed ebbe un’esclamazione che permise all’altro di distrarsi momentaneamente:
“il colpo a sorpresa era stato mancato e non gli rimaneva perciò che percorrere un’altra strada indagatoria e lasciar la regione alquanto in fretta”!
Ma egli disponeva ormai di sufficienti prove per distruggere l’accusa portata avanti nei confronti dei due religiosi. Informò il vescovo e partì per Napoli ove affidò la difesa degli accusati ad un celebre avvocato partenopeo, l’onorevole Marciano, rientrò a Roma il giorno seguente. Dopo aver informato e confortato Don Orione, Emanuele andò a rendere visita al gesuita più influente dell’epoca: il padre Tacchi-Venturi. Chiese ed ottenne un pressante intervento presso il ministro guardasigilli, affinché assicurasse l’indipendenza della istruttoria giudiziaria, che si tenne a Catanzaro. La missione era durata poco più di una settimana. In marzo del 1929 la sezione di corte di appello di Catanzaro, su requisitoria del procuratore del re, riconobbe la piena innocenza dei due ecclesiastici, che avevano passato sei settimane in prigione.
(foto da sin.: don Giuseppe Opessi, Emanuele Brunatto e don Luigi Orione) Il povero fra’ Gaetano moriva qualche tempo dopo, per le sofferenze che lo avevano estenuato. (Padre Gil sopravvisse per altri sette anni: morirà il 3 agosto del 1936, al grido di “Viva Cristo Re” a Saler nella provincia di El Grao – Valenza -, fucilato dai comunisti spagnoli che volevano rinnegasse Gesù). Il Ferrara ebbe un certificato di buona condotta dal partito fascista, ed Emanuele non pote’ avere un solo papiello da parte dell’autorità ecclesiastica per attestare che il padre Gil fosse stato un buon prete. La provvidenza aveva spalancato la Comunione dei Santi: per una sorta di aiuto soprannaturale, padre Pio aveva guidato i passi di Emanuele nell’inchiesta di Cassano per la difesa della congregazione di Don Orione, come egli, qualche tempo prima, aveva guidato Emanuele a Roma per difendere la missione di padre Pio.>>
Il racconto di Emanuele Brunatto di quanto avvenne a Cassano finisce quì, interessante è sapere che la bambina fu uccisa dal padre, probabilmente in preda all'alcool, con una bastonata sulla testa e non fu stuprata come si disse all'epoca dei fatti, e comunque, il popolo di Cassano che voleva addirittura linciare il povero padre Gil e fra' Gaetano, non inscenò alcuna manifestazione contro il vero autore del delitto, che, protetto dalla milizia fascista, non subì alcuna condanna. Tanto, giusto per chiarire e concludere la narrazione.
PS: Padre Gil, il cui nome completo era Ricardo Gil Barcelòn, è stato beatificato da Papa Benedetto XVI il 20 Dicembre 2012.
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Antonio Michele Cavallaro