Sono anni che ricerche fatte all’interno di prestigiose università, come quella di Oxford, raccontano della sparizione del lavoro causa sostituzione con l’intelligenza artificiale, computer e algoritmi. Secondo una di queste ricerche, datata 2013, ben il 47% dei lavori negli USA è a un passo dalla sparizione. Gli stessi ricercatori nel 2016 hanno mostrato come “oggi le tre maggiori società della Silicon Valley capitalizzano in borsa 1090 miliardi di dollari con 137 mila dipendenti, mentre 25 anni fa le tre maggiori aziende manifatturiere americane capitalizzavano in tutto 36 miliardi di dollari impiegando 1,2 milioni di lavoratori”.
La tendenza sembra non conoscere flessione alcuna, se si pensa a Instagram venduta di recente a suon di miliardi che ha solo 19 dipendenti.
Secondo alcuni scienziati di computer entro i prossimi trent’anni i robot potrebbero portare a tassi di disoccupazione superiori al 50%. L’intelligenza artificiale farà scomparire non solo i lavori manuali ma anche quelli intellettuali, come si chiamavano una volta di “concetto”.
Mentre le due rivoluzioni produttive precedenti, da quella agricola a quella industriale, e da questa a quella dei servizi avevano fatto registrare un aumento dei posti di lavoro, quest’ultima verso il secolo dei robot, non assicura altrettanto.
E’ del 1995 il saggio di Jeremy Rifkin intitolato significativamente La fine del lavoro, dove suonava, tra le altre cose, il requiem per la classe lavoratrice.
Si dirà che il ritardo tecnologico italiano ci garantirà da questa rivoluzione. Non è proprio così, basta leggere i due recenti libri inchiesta di Riccardo Staglianò Al posto tuo e Lavoretti per avere un quadro della rivoluzione in atto anche da noi.
Di fronte a questa capacità di produrre ricchezza con un sempre minor numero di addetti e alla conseguente riduzione dei redditi causata dalla digitalizzazione, il futurologo Martin Ford suggerisce “qualche forma di reddito minimo per preservare il meccanismo di produzione e consumo e quindi il capitalismo”. Si tratterebbe di salvare il sistema capitalistico da se stesso, dai suoi eccessi, dal rischio di autofagia.
Questo reddito minimo potrebbe consentire alle giovani generazioni di sottrarsi al ricatto di dover accettare lavoretti sottopagati.
Reddito minimo, sia legato alle condizioni di povertà, che nella variante universale di cittadinanza, è ormai indicato come risposta, non tanto da sinistra ma da studiosi di scuola liberale e da…..Beppe Grillo in un recente intervento sul suo blog non più dei 5S.
Tutti convengono che non c’è altro modo per evitare un collasso sociale ed economico.
Ma l’economista Pasquale Tridico dell’Università Roma Tre, presentato nella squadra di governo da Di Maio alla vigilia delle elezioni, parla di un reddito di cittadinanza come “sostegno a chi non raggiunge la soglia di povertà indicata da Eurostat (780 euro al mese per una persona) in cambio dell’impegno a formarsi e ad accettare almeno una delle tre proposte di lavoro purchè siano eque e vicine al luogo di residenza”. Considerato l’attuale mercato del lavoro saranno proposti quelli che Staglianò chiama lavoretti perché lavoro sottopagato e perché giuridicamente precario dopo tutti gli interventi legislativi culminati con il Jobs act che nella propaganda elettorale il M5S ha promesso di voler superare. E Tridico a questo riguardo propone alle imprese un “Patto di produttività programmato tra lavoratori, governo e imprese” per rilanciare salari e investimenti, il governo sosterrà lo sforzo intervenendo “selettivamente con la riduzione del cuneo fiscale”.
L’Italia è tra i pochi Paesi europei a non prevedere ancora alcuna forma di reddito minimo a meno che non si voglia considerare tale il Rei (reddito di inclusione sociale) del governo Gentiloni che interessa una platea di soli 350 mila persone.
Negli altri paesi è già vecchio, tutti concordano sulla sua necessità se si vogliono evitare guai peggiori del costo del reddito minimo stesso. La questione su cui si dibatte è di prospettiva, cioè a quando la politica avrà conferito a tutti un reddito indipendente dal lavoro.
Ognuno di noi conosce il valore del lavoro come una delle fonti più significative della nostra identità sociale. Quali saranno gli elementi di autorealizzazione personale, una volta emancipati dalle necessità di salario che ci portano a lavorare? Quali i meccanismi culturali, valoriali, creativi, sociali che costituiranno la ricerca dell’autorealizzazione? Il premio Nobel dell’economia Leontief sin dagli inizi degli anni 90 rifletteva su queste implicazioni e assegnava ad una elevata scolarizzazione la capacità di autorealizzazione senza il contesto lavorativo, senza la quale l’individuo cadrebbe nella noia, nell’apatia, e nella dipendenza da alcool e gioco.
I vincoli che limitano l’azione politica e sociale
Il discorso pubblico in Italia e in Europa è attraversato da “vincoli” e “necessità”. L’Europa giustifica la sua politica per doversi uniformare alle logiche di mercato imposte dalla globalizzazione, mentre l’Italia mette in atto delle politiche “perché ce lo chiede l’Europa”.
Le tecnostrutture (Fondo monetario, BCE) agitano regole basate su semplici numeri. Per l’Italia la montagna del debito pubblico difficile da scalare e lo spauracchio dello spread tra Btp italiani e Bund tedeschi, e sempre più le scelte di governo vengono giustificate da quelli che Habermas definisce “imperativi sistemici”.
Ma solo l’assenza di spirito critico e la rinuncia a immaginari futuri possibili ci consegnano alla dittatura del presente e dello status quo. La realtà di oggi è in fondo, come suggerisce Salvatore Veca nel suo ultimo lavoro (Il senso della possibilità, Feltrinelli), non è che il distillato di mondi possibili. Recuperare il senso della possibilità ci rende liberi di immaginare diversi scenari futuri e ci spinge a impegnarci a realizzarli.
In particolare chi governa il presente invece di agitare l’inquietudine dei governati, nel recupero del senso della possibilità, può prefigurare scenari di cambiamenti possibili calibrati sui materiali disponibili, anche perché i mondi possibili sono tanti, ma non tutti probabili, accessibili e alcuni neppure desiderabili.
Giuseppe Costantino