“Cari sindaci non avete capito una beata mazza del DDL sull’autonomia differenziata, ora vi spiego io come stanno veramente le cose”. In sintesi questo è il senso del pistolotto che l’ineffabile senatore Rapani, calabrese di Fratelli d’Italia, ha diffuso ieri nel tentativo di scaricare le colpe dello spregiudicato disegno di legge presentato da Calderoli e approvato da Camera e Senato sulle spalle del PD, del M5S e in generale sulla sinistra italiana. Il comunicato in questione i nostri lettori lo troveranno in coda alla nostra nota. Ci teniamo a precisare che se è pur vero che i partiti chiamati in causa dal senatore abbiano pensato con troppa leggerezza ad una tale soluzione di autonomia regionale, alla fine a portarla per l’approvazione alle camere è stato l’attuale governo, che comprende a maggioranza proprio il suo partito. Quello che ci fa sorridere (ma non troppo) è il tono saccente di questo signore che da diversi mesi spara sentenze definitive su tutto e su tutti (Ci ricorda vagamente un altro personaggio lanciatore di anatemi che fece però una brutta fine). Cominciamo col dire che ai cittadini ed ai sindaci che hanno firmato la petizione contro il DDL, frega poco di chi, come e quando ha pensato per primo ad una tale forma di autonomia differenziata; interessano, invece, e parecchio, le conseguenze nefaste che la sua applicazione porterebbe alla Calabria e a tutto il meridione. Giusto perché il senatore abbia, lui, le idee chiare in proposito, gli consigliamo di leggere la nota che segue, pubblicata qualche tempo fa a firma del dott. Giuseppe ALOISE, un’analisi molto più approfondita delle sue superficiali e tendenziose osservazioni. (per la redazione: Antonio Michele Cavallaro)
E’ di grande attualità, soprattutto nel Mezzogiorno, il tema dell’autonomia differenziata. Le posizioni contrapposte si alimentano spesso di astratti pregiudizi e non di serene valutazioni.
Occorrerebbe, invece, riportare il dibattito sui temi concreti che investono il processo di rafforzamento delle autonomie locali. Al di là delle questioni di carattere costituzionale che pur sono rilevantissime, gli aspetti concreti della riforma vengono per certi aspetti sottaciuti.
Il costo della riforma, la serie storica della spesa pubblica complessiva e regionalizzata, i costi standard delle prestazioni essenziali, le entrate fiscali regionalizzate ed altro, sono grandezze sulle quali permane una coltre di nebbia che il dibattito non contribuisce a dissolvere.
Sotto il profilo della chiarezza delle posizioni di partenza, in materia di riforme, giova ricordare che Giulio Tremonti, Ministro del Tesoro, nel gennaio del 2009, nel suo intervento di replica al Senato in sede di esame della delega fiscale , affermò testualmente: “L’impegno politico è di cominciare a lavorare insieme sull’impatto dei decreti attuativi”. Non mancò di assicurare che la delega rispettava “ la Costituzione della Repubblica per unitarietà e solidarietà”.
Sui costi del federalismo fiscale Tremonti prospettò serie difficoltà poiché “ le variabili che determinano i costi della riforma non sono stilizzabili in formule meccaniche come nei sistemi semplici”. Di qui l’esigenza di disporre, come punto di partenza, di “una banca dati condivisa”.
Sulle base di queste premesse, dovendo tener conto dei vincoli esterni in materia di equilibrio di bilancio, il progetto di federalismo fiscale si è arenato. Non è inopportuno sottolineare che la delega fiscale puntava sin da allora sui livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e sui cosiddetti fabbisogni standard.
Ora, dissolto il federalismo fiscale ,abbandonata la secessione e crollato il mito dell’Indipendenza della Padania , l’ultima bandiera identitaria della Lega è ormai diventata la cosiddetta Autonomia differenziata
Indubbiamente negli ultimi 20 anni le regioni del Centro-Nord hanno registrato un processo di caduta in termini di reddito pro-capite rispetto alle regioni più forti della U.E in analogia alla scarsa crescita del nostro Paese.
Ed infatti, se facciamo pari a 100 il reddito pro-capite nella UE, l’Italia aveva un reddito di 112 nel 1995, 110 nel 2000, 100 nel 2013 e, ora, addirittura 95 nel 2019 – dato più recente - scendendo così al di sotto della media comunitaria.
Cosa avviene, per gli stessi anni, per le regioni più forti del nostro Paese? Prendendo in esame il reddito delle 280 regioni UE, la Lombardia scivola dal 17esimo posto al 44esimo ; l’Emilia Romagna dal 25esimo posto al 55esimo ed il Veneto dal 36esimo posto al 74esimo.
Nel confronto con le altre Regioni europee che occupano posizioni di testa, la Lombardia, l’Emilia ed il Veneto registrano una forte caduta che sembra quasi inarrestabile.
Sulla base di questi dati allarmanti, anziché interrogarsi sulla capacità di competizione del nostro sistema produttivo nel suo complesso e fare un’analisi critica della politica industriale sin qui seguita, gran parte dei gruppi dirigenti del Nord ritiene che la causa del declino sia ascrivibile in larghissima parte ai trasferimenti che il Nord produttivo deve sopportare per alimentare sprechi e disservizi delle Regioni meridionali. L’eccesso del prelievo fiscale al Nord e gli sperperi del Sud che finanzia i consumi interni con i trasferimenti di provenienza extra-regionale sarebbero le cause del declino del paese e del forte arretramento delle regioni del Nord rispetto alle aree più sviluppate. Inevitabile, quindi, l’attacco allo stato centrale ed alle sue funzioni con la prospettiva di realizzare la restituzione dei “trasferimenti illeciti”. Ritorna così, pur se sotto forma di compartecipazione alle entrate fiscali, il problema dei “Residui fiscali” che era il miraggio della prima “devolution” in salsa padana e che alimenta il “rancore” della Padania verso il Meridione nonostante l’apparente svolta “nazionale” operata da Salvini.
Ma sui Residui fiscali bisogna fare un discorso serio e severo seguendo l’ammonimento del Prof Tremonti circa la necessità di pervenire a dati obiettivi e condivisi. Il concetto di “residuo fiscale” è abbastanza complesso e dà origine a risultati che variano a seconda delle modalità di calcolo e della regionalizzazione della spesa e delle entrate fiscali. Intanto è abbastanza facile definire il residuo fiscale come la “differenza tra entrate fiscali e la spesa pubblica erogata”.
Per il calcolo dei residui normalmente si fa riferimento alla banca dati del Sistema denominato CPT (Conti Pubblici Territoriali) e per quanto riguarda la spesa pubblica erogata il calcolo può tener conto della spesa riferita alla PA (Pubblica Amministrazione) o al Settore Pubblico Allargato (SPA).
I Conti consolidati territoriali riferiti alle singole regioni, quanto ai “residui”, rivelano i seguenti risultati :
Le Regioni del Centro Nord tra il 2000 ed il 2018 registrano in media per anno un residuo positivo pari a 140 miliardi. In particolare:
La Lombardia per lo stesso periodo registra un residuo per anno pari a € 65 miliardi. L’Emilia ed il Veneto singolarmente registrano un risultato pari a 20 miliardi.
Le Regioni del Mezzogiorno registrano un residuo di segno negativo pari ad €37 Miliardi.
Normalmente la spesa pubblica calcolata territorialmente nelle singole regioni è al netto delle quote di ammortamento e degli interessi corrisposti ai detentori del debito pubblico (persone fisiche, società o intermediari finanziari banche etc..). Se si includono queste grandezze i risultati si correggono nel modo seguente: Le regioni del Centro-Nord quasi dimezzano il residuo positivo e si passa da 140 miliardi a 77 miliardi. La Lombardia passa da 65 miliardi a 45 Miliardi; il Veneto e l’Emilia scendono a 15 Miliardi. Le Regioni meridionali accentuano il risultato negativo e passano a circa 49 miliardi annui.
E’ evidente che la debolezza del sistema economico meridionale produce un basso livello di entrate fiscali mentre la spesa pubblica non può non garantire la parità di accesso ai servizi essenziali. Di qui la necessità di garantire una equità orizzontale che non autorizza a ritenere illegittimi i trasferimenti dello Stato verso il Mezzogiorno.
Non può destare meraviglia se i residui fiscali siano di segno positivo al Nord e di segno negativo al Sud stante, appunto, la scarsità delle entrate fiscali nelle regioni meridionali effetto della permanenza del sistema economico dualistico che caratterizza ormai stabilmente il nostro paese.
Se, invece, operiamo il calcolo assumendo come punto di riferimento la Spesa relativa al Settore Pubblico Allargato (SPA) che comprende oltre la Pubblica Amministrazione tradizionale altri enti pubblici e soggetti di varia natura (Anas, Enel, Ferrovie, Eni, Terna etc..) i risultati della spesa pubblica pro-capire sono sorprendenti e riducono se non addirittura azzerano l’impatto dei cosiddetti residui fiscali sulle economie delle regioni settentrionali.
Se utilizziamo la fonte CPT (Conti pubblici territoriali) la spesa pubblica allargata risulta nel Mezzogiorno pari ad € 13.394 pro-capite mentre nel Centro Nord è pari ad € 17.065 pro-capite. I CPT fanno capo all’’Agenzia per la Coesione Territoriale e regionalizzano, sul piano territoriale, tutta la spesa erogata dal Sistema allargato.
La Lombardia registra una spesa media pro-capite pari ad € 16.979, il Veneto € 14.188 e l’Emilia € 16.375.
Nel mezzogiorno dunque la spesa media pro-capite è al di sotto di € 3.671 rispetto alla media che si registra nel Centro Nord.
Il racconto di una spesa pubblica eccessiva nelle regioni meridionali viene smentita da calcoli più rigorosi e più obiettivi che regionalizzano nel complesso tutta la spesa riconducibile allo Stato, agli Enti pubblici territoriali ed al variegato mondo degli enti economici che pur mostrando una forma di tipo privatistico sono riconducibili al capitale pubblico.
Il surplus di spesa pubblica nelle regioni del Nord rispetto al Mezzogiorno è confermato, altresì, in modo inoppugnabile, dall’esistenza di alcuni divari che sono analiticamente esposti e documentati dall’ISTAT e da recenti studi della Banca d’Italia.
Valga per tutti il divario infrastrutturale
Rete ferroviaria: al Nord vi sono 6,3 Km ogni 100 Km quadrati, al Centro 6 Km, ed al Sud 4,6 Km. Al Sud solo un terzo della linea è elettrificato e a binario doppio, mentre nel centro-nord rasenta il 60%
Alta Velocità: Al Nord 0,80 Km ogni 100 Km quadrati, al Centro 0,56 Km, al Sud 0,15 Km
Altro aspetto non secondario è rappresentato dai cosiddetti Lep (Livelli Essenziali Prestazioni) che, si assicura, saranno definiti prima dell’attuazione del processo di trasferimento delle funzioni statali alle regioni. Ma, la concreta definizione ed attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni prescinde dallo stesso processo di rafforzamento delle autonomie regionali, configurandosi - invece - come un autonomo dettato costituzionale che non può essere ulteriormente disatteso secondo i ripetuti precetti della Corte Costituzionale.
Nella relazione che accompagna il disegno di Legge Calderoli non c’è traccia di riferimenti al costo della riforma, né da parte degli Organi di Governo sono state avanzate documentate ipotesi sull’impatto del processo riformatore sui conti pubblici.
La banca dati condivisa dov’è? Esponenti della maggioranza che sorregge l’attuale governo non esitano a ritenere che i LEP avrebbero un impatto di circa 80 miliardi sul bilancio dello Stato! Non è opportuno fare previsioni di spese senza il supporto di un’approfondita analisi dei costi delle prestazioni che rientrano nei Lep.
Un’operazione semi-clandestina ed affrettata per valutare queste “grandezze” minerebbe alla base una riforma che presenta altri dati allarmanti relativi non solo alle materie da trasferire ma anche all’inevitabile processo di disgregazione territoriale.
La banca dati condivisa è, infine, essenziale perché l’approfondimento dei cosiddetti residui fiscali e la loro esatta quantificazione farebbero cadere il racconto pretestuoso di un Sud che spreca e che vive alle spalle del Nord.
Il dibattito sull’autonomia differenziata è forse l’occasione propizia per smantellare una falsa ma scontata narrazione che ha alimentato sin dall’inizio le pretese secessionistiche della Padania in questi ultimi decenni.
Ricondurre il dibattito entro i termini appropriati significa anche operare una seria riflessione sul ruolo delle regioni nel nostro Paese e nel Mezzogiorno in particolare.
Il neo-centralismo regionale con lo svuotamento delle province, cui non ha corrisposto il rafforzamento delle autonomie comunali, ha, forse, contribuito nel Mezzogiorno ad accentuare i divari con il resto del Paese.
Comunicato del sen Rapani
RAPANI RISPONDE AI SINDACI CALABRESI: «NON CONOSCETE IL DDL SULL'AUTONOMIA DIFFERENZIATA»
Il senatore critica duramente le proteste dei primi cittadini, spiegando come il disegno di legge garantisca l'unità nazionale e l'equità tra le regioni
Roma, 27 giugno 2024 - Il dibattito politico sull'autonomia differenziata continua ad essere acceso, con circa 100 sindaci calabresi che hanno sollevato preoccupazioni sulla possibile incostituzionalità del disegno di legge (DDL) in questione. Il senatore Ernesto Rapani ha risposto fermamente, criticando le loro posizioni e sottolineando la scarsa comprensione del DDL. «È grave che i sindaci si lamentino, dimostrando di non conoscere il contenuto del DDL», ha dichiarato.
Secondo il parlamentare di FdI, le preoccupazioni dei sindaci sono infondate e riflettono una mancata lettura approfondita del testo legislativo. Rapani ha spiegato che il DDL sull'autonomia differenziata prevede un processo chiaro e regolamentato che garantisce l'uguaglianza tra le regioni. «Questo DDL stabilisce linee guida precise che devono essere seguite per poter procedere, su richiesta delle regioni, al trasferimento delle funzioni», ha chiarito. Un aspetto importante del DDL è l'individuazione dei livelli essenziali di prestazione (LEP), che devono essere uguali per tutte le regioni e supportati da risorse finanziarie adeguate. «Se non c'è copertura finanziaria, non si possono trasferire i LEP, anche se richiesti dalle regioni», ha osservato Rapani. Questo chiarimento mira a rassicurare che l'autonomia differenziata non comporterà disparità nei servizi essenziali tra le diverse regioni italiane.
Il senatore ha poi sottolineato l'importanza di un iter definito: «I parlamentari di FDI hanno incluso nel testo elementi per evitare disuguaglianze, con verifiche per controllare che i LEP siano uguali per tutte le regioni, finanziati e operativi. Solo quando il Governo verifica queste condizioni, si procede alla stipula dell'accordo per il trasferimento delle funzioni tra Governo e Regione».
La questione dell'autonomia differenziata rappresenta una delle maggiori contraddizioni del PD, rivelando incoerenza e un rischio per l'unità nazionale. «Tutto iniziò nel 2001», riferisce il senatore Rapani, «quando la maggioranza di centrosinistra modificò il Titolo Quinto della Costituzione, attribuendo più poteri alle Regioni, specialmente con l'articolo 116, terzo comma, che permetteva ulteriori autonomie regionali tramite legge ordinaria, mai realizzata. Questo ha lasciato il Parlamento senza strumenti per gestire richieste esagerate delle Regioni, minacciando l’unità nazionale per oltre 23 anni. Nel 2017, la situazione peggiorò quando l'Emilia Romagna, guidata dal PD, insieme a Lombardia e Veneto, chiese formalmente nuovi poteri allo Stato. Lombardia e Veneto lo fecero tramite referendum popolari, sostenuti dal Governo di centrosinistra. Questo innescò una corsa all’autonomia anche da parte di altre Regioni guidate dal PD, dimostrando incoerenza tra chi oggi si oppone all'autonomia differenziata.
Tra i governi tecnici, di centrosinistra e pentastellati, l'autonomia regionale accelerò, bypassando il Parlamento e ignorando il diritto dei cittadini a livelli essenziali di prestazioni (LEP), compromettendo l'equità nord/sud. Solo successivamente la procedura venne rettificata, garantendo il passaggio per le Camere e la definizione di principi inderogabili per preservare l'unità nazionale e l'uguaglianza nell’accesso ai servizi. Le recenti relazioni della Corte Costituzionale e della magistratura amministrativa hanno evidenziato come la riforma del Titolo Quinto abbia aumentato le conflittualità tra Stato e Regioni. Gli emendamenti recenti assicurano standard uniformi su trasporti, sanità, scuola ed energia, salvaguardando l'unità nazionale. La sinistra, in questa vicenda, ha mostrato un doppio volto: promotrice di un regionalismo esasperato e oggi paladina di una presunta unità nazionale. Una contraddizione pericolosa che non può essere ignorata».
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