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L'OSTERIA - (racconto)

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 (foto dal web: Quartiere Tufello in una cartolina degli anni 50) Un racconto di un quartiere della periferia romana degli ultimi anni '40, un pizzico di nostalgia nel ricordo di una fanciullezza vissuta in un mondo che oggi è difficile immaginare, povero ma ricco di schiettezza e di umanità. (la redazione)

Il Tufello si stava risvegliando dal torpore della guerra. Nelle due palazzine che fronteggiavano Via Capraia, dalla fontanella all’angolo con Via delle Isole Curzolane, andando verso la Santa Assunta, si sentiva già qualche massaia cantare mentre puliva i vetri delle finestre. 

Le due palazzine, la Via Capraia 60 e 70, erano congiunte al livello della strada da una struttura che ospitava negozi e una spaziosa entrata coperta che dava accesso all’interno dell’isolato. Esse giacevano circa cinque metri dal muretto che circoscriveva il quartiere. Il terreno interno giaceva una dozzina di gradini sotto il livello dei negozi. Guardando dalla strada, i negozi, ben larghi circa quattro metri ciascuno, erano da destra a sinistra: Massi, pane pasta e pizzicheria che occupava due spazi; l’entrata alle palazzine interne; poi il bar della sora Rosina, e infine Arduino, frutta e verdura, olii e vini. Il tutto era coperto da due terrazze appartenenti, ciascuna, ad inquilini del secondo piano delle due palazzine. 

Per un pupo di quasi cinque anni che andava a comprare il pane, per la nonna che viveva in una palazzina all’interno dell’isolato, il mondo sembrava eterno; saliva i gradini insiti nella grande entrata e girava da Massi. Tutto era copasetico e normale. Lui non sapeva che esistevano gli Appennini, le Alpi e non aveva mai visto il mare. Eppure il mondo cambia con una forza irresistibile che obbliga a crescere. Un giorno eseguendo la consueta commissione, il pupo si confrontò con un operaio che stava lavorando con mattoni e cazzuola dentro l’entrata e gli chiese cosa faceva. “Stiamo chiudendo” rispose il muratore che stava innalzando un muro ai piedi della gradinata, “non si potrà più passare per qua”. Il pupo rimase attonito e lo disse al padre quella sera mentre si mangiava la cena. “Si, ho visto” disse il padre. “Ma come fanno a chiudere una cosa così?”, il pupo intendeva dire “come fanno a chiudere uno spazio pubblico dove tutti passano”. Non gli sembrava normale. “Come, come fanno? Basta che fai la domanda all’istituto e paghi l’affitto, ti danno tutto quello che vuoi”, disse con amaro sardonico il padre. “l’istituto?” (una parola nuova da imparare), “si l’istituto case popolari” (infatti l’Istituto Autonomo Case Popolari). Allora c’era anche “l’Istituto”, al di là degli abitanti, pane, pasta, olii e vini, da dover prendere in considerazione… 

Si venne a sapere un giorno dopo che vi avrebbero messo un’osteria. “Maria Verta!” esclamò la nonna con la paura che anche il marito sarebbe andato lì a “briagarse” insieme a tutti gli altri incivili. Di fatti non fu proprio così. Il locale, sia di dentro che tra l’entrata e il muretto di recinto divenne un luogo di passatempo per gli abitanti del quartiere dove la gente si giocava il quartino di Frascati, con partite di Scopone Scientifico, Tre Sette, Briscola, e anche Bridge che era giocato da coloro che se ne intendevano, con carte inglesi. Di fatto non si vedeva mai questa gente litigare su presunti errori fatti dai compagni, con tredici carte, mentre si verificavano spesso contumelie tra compagni che giocavano con carte napoletane: “ma come fai a giocà così? C’avevi il re liscio!”, “E che ne sapevo dov’era l’asso?”, “ma nun l’hai visto che nun ha preso co l’asso la mano precedente?”… e così via ad oltranza. No, coloro che giocavano Bridge erano gente seria e professionale. Non litigavano mai. Con il passare del tempo il locale divenne un centro di giocatori dove ai momenti di picco operavano fino a otto, o anche più, tavoli di giocatori tutti a scommettersi la birra o un quartino. A volte, quando mancava la luce, uscivano immediatamente le candele, e il locale sembrava un luogo dove si radunavano carbonari a complottare intorno una candela. Così passarono quegli anni. 

E gli altri negozianti? Massi se la passava benissimo con quella fame che andava in giro… Il vecchio badava la cassa. E siccome di biglietti di una lira in circolazione ce ne erano pochissimi, e non valevano poco più di nulla, se doveva dare 27 lire di resto, te ne dava 25 in moneta, più due pesciolini di liquirizia a sapor d’anice. Tanto per non lasciarti con la bocca amara. E lui ci guadagnava pure su quello scambio. In tempo meno impegnativo il vecchio si ritirava nel di dietro dove erano magazzini e anche l’ufficio ragioneria, ovvero una scrivania con cassetti dove erano ricevute, bollette, cambiali e carte varie. La scrivania era accanto una finestrella sbarrata dove il vecchio teneva una bottiglia di vermouth sul davanzale, che con il passare del tempo diventava sempre più vuota fin quando non se ne vedeva una nuova. Il figlio invece, benché aiutato da due commessi, era quello che sbrigava le cose sul banco. Quando la fila si dilungava fino alla porta incominciava ad accelerare: “arriva fulmine” diceva. Prima sbrigava quelli che volevano poche cose e li mandava alla cassa. Poi si applicava a clienti con molte più esigenze. A quei tempi legumi e cereali si vendevano in un cartoccio fatto a cono e mozzato all’apice. Il valore del contenuto veniva scritto con matita sul cartoccio stesso dopo esser stato pesato. Il calcolo era mentale o qualvolta fosse complicato scritto su la carta. Il tutto veniva sommato su una grande busta di carta dove era posta la vendita complessiva e mostrato alla cassa. Le cose andavano a gonfie vele. 

In quanto alla sora Rosina gli affari andavano a scacchi. D’estate un po’ meglio perché, oltre al caffè, si vendevano anche gelati e bibite. D’inverno qualcuno infreddolito raramente si beveva una strega o un punch. Lei badava il pupo che tornava dall’asilo e poi dalle elementari e gli insegnava come fare i compiti. Il marito lavorava altrove come titolare di un altro bar e si vedeva poco al suo bar del Tufello. Per cui qualcuno prestava attenzioni alla sora Rosa che, per sua modestia, non le erano gradite. Ma i gelati di crema, cioccolata e fragola, erano il grande diletto dei frequentatori del bar. 

Arduino era una buonanima con due figli che talvolta si presentavano in bottega. Lui era un socio della squadra di calcio del Tufello - Socio non per fare i soldi, ma anche per non perderne troppi. Andavi a comprare vino, aceto od olio portando la bottiglia di casa e lui te la riempiva. Bisogna dire di lui che ci sapeva fare. Non ostante misero il mercato aperto su via Capraia, lui sapeva competere. Le bancarelle avevano quantità limitate di prodotti e alla mezza portavano via cavalletti, baracca e baldacchino. Arduino aveva una gamma di prodotti agricoli e rimaneva aperto fino alle otto di sera. Sopperiva per tutte le cose che le massaie avevano dimenticato: aglio, erbe, sedano, cipolle, carote, insalata…e di sera il negozio si riempiva. Per cui Arduino poteva tirare avanti alla romana. Non ostante il mercato fu infine spostato ad uno coperto accanto a Piazza degli Euganei, Arduino cercava di sfruttare il meglio di sé. Seppi da un amico che egli si spostò in un quartiere di lusso, lontano da supermercati e anche dal calcio tufellano. Forse aveva pesanti responsabilità. 

Con il passare del tempo anche l’osteria incominciò a scafarsi. Di sabato cucinavano i supplì con mozzarella e alici e domenica pomeriggio cucinavano i filetti di baccalà con pastella fritti in profondità. E siccome erano buoni, i giocatori li ordinavano buttandoli giù con il quartino. Era una spesa un po’ estravagante ma ne valeva la pena. Qualche pensionato solitario se ne andava a casa soddisfatto di tale umile cena – due filetti di baccalà. Purtroppo a conti fatti l’impresa non rendeva. La gente andava lì per giocare, non per bere o mangiare. E il locale fu ceduto ad un ristoratore. In realtà il locale divenne una semplice trattoria di quartiere il cui titolare si chiamava Franco (non ricordo mai aver saputo il cognome). 

Franco, in precedenza, possedeva una piccola trattoria in una casupola all’angolo, molto acuto, dove da Via delle Vigne Nuove si giunge a Via della Bufalotta, proprio vicino al convento delle suore. Quel locale aveva tre tavolini, un forno a legna e una cucinetta (oggi è un ristorante ampio e accogliente). Non solo era piccolo ma un po’ lontano sia dal quartiere della Bufalotta che dal Tufello. La Sora Jole molto più vicina era il luogo preferito dai tufellani, e anche dai lontani montesacresi che cercavano qualcosa di diverso dal solito, verso la campagna. 

Quindi la mossa verso il centro del Tufello fu per Franco un buon passo avanti. Il suo miglior attributo era la sua pacatezza e il desiderio sincero di soddisfare i clienti, e soprattutto la sua straordinaria convivialità con il prossimo. Sapeva cucinare e faceva anche le pizze. Egli voleva dimostrare il valore del suo lavoro. A quei tempi il ferragosto era una festa partecipata; per strada si vedevano moltitudini, bancarelle con cibo che sollecitava l’acquolina; si innalzavano alberi della cuccagna; si facevano gare di corsa tra i giovani; si mettevano impalcature per far cantare dilettanti innamorati: Grazie dei fior, Serenata celeste, Chitarra romana…Franco offriva piatti di spaghetti per la gara a chi faceva prima a mangiarli. Uno di quei giorni, dopo aver portato i piatti sul tavolo, mentre il conduttore dava gli ultimi dettagli della gara, Franco urlò: “Sbrigateve che se raffredda”. Era una pubblicità per il suo cucinare, e non sarebbe stata buona. La verità è che si sentiva il profumo a distanza ed invogliava a degustare ugualmente. 

Sarà stato per il rafforzamento delle regole igieniche per smaltire i fumi di cucina di ristoranti che un giorno si vide un fumaiolo salire sopra la terrazza dei Despuques. Questo risultò in un inquietante diluvio di denunce al delitto da parte del Signor Despuques, che era una persona riservata di cui mai si era sentito parlar male. La risonante protesta fu sentita da tutto il vicinato. Il giorno dopo arrivarono i muratori che portarono impalcature fino al tetto del 70; il fumaiolo fu portato in pendio sotto la terrazza fino all’angolo della palazzina e da li in verticale fino a sopra il tetto. E da allora regnò la pace. Franco non voleva offendere e rendeva a ciascuno il suo se riteneva di aver sbagliato. 

Il narratore di questa storia partì dal Tufello a 15 anni verso un paese lontano. Però attraverso il miracolo della rete ci ritorna in momenti di riflessione per darsi una idea di come il mondo è migliorato. Oggi ciò che erano la bottega di Arduino, il bar della sora Rosa, e l’osteria sono congiunti in un singolo ristorante (pizzeria Capraecavoli). Non solo, ma il suolo tra i negozi ed il muretto di recinto, una volta liberamente pedonabile, è diventato parte del ristorante e coperto da una tettoia. La gradinata che accedeva alla palazzina 70 è necessariamente chiusa e gli inquilini devono girare intorno alla prossima entrata dell’isolato. Diceva bene Gennaro er calabrese: “basta che fai la domanda all’istituto e paghi l’affitto, te danno tutto quello che voi”. 

Sante Camo

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