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"La moglie di Dante" di Marina Marazza - Recensione

moglie di dante.jpg “Chi era Gemma Donati?”.

“Gemma chi…?”.

Così agli esami di maturità del secolo, anzi, del millennio scorso.

Fosse stato chiesto “Chi era Francesca?”, “Chi era Piccarda?”, “Chi era Beatrice?”, be’, non ci sarebbe stato neanche il bisogno di specificare che si stava palando di Dante, e la risposta l’avrei data e subito; ma questa Gemma chi mai l’aveva sentita nominare? Nei manuali forse un mezzo rigo, magari alla biografia del Sommo Poeta, ma poi niente più. Del resto, nemmeno lui, Dante, ne aveva mai parlato, eppure di versi, e non solo, ne aveva scritti, e in abbondanza.

Trascorsi tanti anni da quella domanda, adesso sì, la risposta la saprei dare, anche grazie a chi, muovendo da quello stesso punto interrogativo, si è resa conto che Gemma «non se l’è mai filata nessuno»: Marina Marazza, autrice del romanzo La moglie di Dante, edito per la Solferino, volume denso di pagine (554), che si leggono, però, tutte d’un fiato, con la piacevolezza di una scrittura capace di rievocare immagini e suoni della Firenze trecentesca, rivelatori di una cura e di un’attenzione non solo storica, ma anche linguistica dell’Autrice, come da lei stessa spiegato nelle pagine conclusive del suo libro[1].

Marazza ricostruisce la storia della coppia Dante-Gemma datandone il matrimonio a dopo la morte di Beatrice, seguendo Boccaccio, secondo il quale le nozze sarebbero state caldeggiate dai parenti e dagli amici di Dante per risollevarlo dalla perdita della donna da lui amata[2].

La datazione del matrimonio a dopo la morte di Beatrice muove dalla recente confutazione della storica francese Isabelle Chabot[3] di un documento ascritto al 1277, finora addotto a prova del fidanzamento tra un Dante appena dodicenne e una Gemma, ancora più giovane di lui, documento che rivelerebbe, tuttavia, un errore di datazione notarile nella copia dell’atto, la qual cosa consentirebbe di posticipare le nozze Alighieri-Donati al 1293.

Marazza precisa che non ha, tuttavia, seguito questa datazione alla lettera, giacché ha anticipato un po’ le nozze, ma ha ricostruito comunque la storia di Dante e Gemma «tenendo presente […] tutte le tessere che la documentazione storica offriva come certe e aggiungendo man mano le altre al puzzle, sempre con il criterio della massima verosimiglianza» (p. 532): onestà intellettuale dell’autrice e finestra aperta sul suo scriptorium, ricco di «saggi, trattati, articoli, atti di convegni» e con una «triade» di riferimento: il medievista Alessandro Barbero, autore di un recentissimo libro su Dante[4]; il prematuramente scomparso Marco Santagata[5], e la linguista Giovanna Frosini, accademica della Crusca (cfr. p. 531).

Il lettore segue la storia di Gemma e, con lei, quella di Dante, attraverso una scansione temporale degli eventi articolata in tre parti: la prima, dove sono raccontate le vicende databili al 1285-1290, anno della morte di Beatrice (pp. 13-167); la seconda, dal 1290 al 1300, anno giubilare coincidente con il priorato di Dante, dal 15 giugno al 15 agosto (pp. 177-298); e la terza, dal 1300 al 1340, anno in cui si potrebbe datare la morte di Gemma (pp. 309-523). Per esigenze narrative, l’Autrice si è talvolta concessa qualche licenza rispetto all’effettiva datazione dei fatti narrati, ma le licenze sono minime e tutte segnalate in appendice (cfr. pp. 533-535).

Chi inizia la lettura di questo romanzo potrebbe pensare che alcune vicende particolari, come la rottura del fonte battesimale in San Giovanni, che Marazza immagina avvenuta durante l’iniziazione cristiana del primogenito del poeta[6], o l’accusa di negromanzia mossa all’Alighieri, nonché il suo soffrire di attacchi epilettici possano essere frutto di invenzione letteraria, mentre sono tutti fatti documentati, talora dallo stesso Dante, come nel canto XIX, 16-21 dell’Inferno dove il poeta racconta l’episodio autobiografico avvenuto presso il fonte battesimale in San Giovanni, pur non specificando chi fosse quell’«un che dentro v’annegava» (cfr. v. 20).

Ciò che non è vero, sottolinea l’Autrice, potrebbe essere verosimile, come il fatto che gli Alighieri possedessero una schiava, eventualità non remota nella società del tempo[7]. Similmente è plausibile che Dante si sia “consolato” per la lontananza da Gemma durante il suo esilio intrattenendosi con altre donne, secondo una morale che vedeva corrispondere «alla fedeltà quasi obbligata e “fisiologica” della donna, finalizzata alla riproduzione legittima, […] una fedeltà meno obbligante ma più virtuosa da parte dell’uomo», fino a «rafforzare l’impressione che l’obbligo della fedeltà sia di fatto ritenuto tale solo per le mogli»[8], verità ben nota alla Gemma del romanzo, la quale, sapidamente, chiede a un divertito Guido Cavalcanti, se la formula latina pronunciata dalla sposa allo sposo per suggellare le nozze romane, Ubi tu Gaius, et ego Gaia, valesse anche per l’uomo, suscitando la schietta risata dello stesso Dante (cfr. pp. 90-91).

Il lettore, dunque, attraverso gli occhi di Gemma, inizia a conoscere «un Dante di carne e sangue» (p. 536), lontano dall’immagine agiografata che lo vuole austero, col naso adunco e il cappuccio rosso in testa, e questo grazie alla Marazza che, con rapide pennellate sparse tra le righe, lo presenta come «un giovane uomo», dalla «voce forte» (cfr. p. 38), appassionato di caccia col falco e dal corpo atletico, tanto che in sella «non aveva più l’aria solenne del dotto, pareva proprio un guerriero pronto a combattere». La Gemma del romanzo, ma forse non solo lei, rimane «rapita a guardarlo» (cfr. p. 83) e, pazienza per il profilo adunco: l’autrice suggerisce come questo sia dovuto a un colpo sul paranaso dell’elmo, ricevuto combattendo sulla piana di Campaldino (p. 107); l’eroismo bellico di Dante è tuttavia poco dopo ridimensionato dall’ironica chiusa finale: il poeta è tornato sì salvo e vincitore dalla terribile battaglia, ma febbricitante e col volto tumefatto per le ferite belliche, tanto da giacere abbandonato sui cuscini, «a bocca aperta, russando sonoramente» (cfr. p. 109). Certo, però, non dorme la sua prima notte di nozze, quando si mostra «uno sposo che sapeva come trattare le donne» (cfr. p. 182), con la sua barba che solleticava Gemma mentre la baciava: una barba che non costituisce una licenza artistica dell’Autrice, giacché la si ritrova raffigurata in un ritratto inedito del poeta, opera di un anonimo pittore, conservato nel municipio di Orvieto e che ora fa bella mostra di sé nel museo cittadino “Claudio Faina”.

La fitta lanugine pare trovare conferme non solo iconografiche[9], ma anche letterarie: Boccaccio, nel già citato Trattatello in laude di Dante, XX, Fatezze e costumi di Dante, descrive del «ghibellin fuggiasco» il volto «lungo», il «naso aquilino», le «mascelle grandi», l’incarnato «bruno» e, per l’appunto, «i capelli e la barba spessi, neri e crespi».

Di Gemma, invece, si sa poco quanto niente, oltre al fatto che appartenga alla famiglia dei Donati, schierata tra i guelfi neri; che è andata in sposa con una dote di 200 fiorini, ben poca cosa ma giustificabile col fatto che Dante, se non traeva dall’unione un gran vantaggio economico, pareggiava i conti legandosi a una delle più potenti famiglie di Firenze; che non ha seguito Dante nell’esilio, ma che è stata comunque costretta ad abbandonare la loro casa, fatta oggetto di saccheggio, e che, ciononostante, non si perse d’animo, riuscendo a mantenere se stessa e figli anche dopo la morte del Poeta quando, nel 1329 riuscì a ottenere sui beni del defunto, sequestrati dopo la sua condanna all’esilio, ventisei staia di grano annui a recupero della propria dote sponsale.

Una donna pratica, dunque, che la Marazza immagina intraprendente anche su piano privato: è lei che decide chi sposare e fa una scelta d’amore, non attendendo di essere data in matrimonio dai genitori a un uomo che non doveva propriamente incontrare le sue simpatie, giacché lo addita come «un barbaro zoppo» (p. 155), ma dichiarando lei stessa il proprio amore a Dante e riuscendo così a distoglierlo dal proposito di vita consacrata successivo al duro colpo infertogli dalla morte di Beatrice; e tutto ciò anche grazie alla complicità di Guido Cavalcanti, cui l’Autrice immagina che Gemma si rivolga per chiedere aiuto nel portare a termine il suo proposito di nozze (cfr. pp. 152-166).

Una donna così straordinaria risulta proprio per questo fuori dai limiti imposti da sempre al genere femminile, il cui compito era quello di domum servare e lanam facere[10] e la cui maggiore virtù era il silenzio[11]. Gemma, invece, ci è presentata da subito come “diversa”, sin dalle parole di Corso Donati, suo cugino, uno dei più temuti capi tra i guelfi neri, che, all’inizio del romanzo, la presenta così ai suoi sodali: «È mia cugina Gemma, Testa di Ruggine! Si arrampica sugli alberi come un villano e ha la lingua che taglia peggio di una lama!» (p. 17): la diversità di Gemma emerge non solo dal suo non stare mai ferma e zitta, ma da un connotato fisico con cui l’Autrice la ritrae, i capelli rossi, cui l’immaginario comune guardava spesso con sospetto, instaurando un rapporto di falsa consequenzialità tra la chioma fulva e la malignità di chi portava una simile zazzera; non è un caso che, in epoca medievale, i capelli ramati fossero un connotato delle streghe[12].

Il ritratto di Gemma fatto dalla Marazza come donna del tutto atipica rispetto ai canoni dell’epoca potrebbe trovare, a mio parere, un’indiretta conferma proprio nelle parole quasi velate di misoginia di Boccaccio, il quale, dopo aver esposto in generale i danni del matrimonio nel già citato Trattatello[13], afferma di non sapere se questo sia stato anche il destino di Dante («Certo io non affermo queste cose a Dante essere avvenute, ché nol so»), ma ne insinua il dubbio a proposito della mancata riunione tra Dante e Gemma dopo l’esilio di lui[14]: tali insinuazioni si possono spiegare proprio col sospetto, tipico di un uomo del suo tempo quale era Boccaccio, nei confronti di una donna come Gemma, che avrebbe travalicato i limiti imposti al proprio sesso, invadendo ambiti prettamente maschili e dimostrando, per giunta, di sapersela cavare egregiamente. È, infatti, difficile ipotizzare una tensione coniugale tra Dante e sua moglie, anche perché quando il poeta, in una Tenzone delle Rime, attacca l’amico Forese Donati, cugino di Gemma, dicendo che sua moglie Nella è costantemente fredda giacché lui non riesce a soddisfarla a letto, non troviamo versi di risposta che attacchino la vita matrimoniale di Dante[15]; di contro, nella Commedia, ci sono prove attestanti il buon rapporto di Dante con i parenti di Gemma: nel canto XXIII del Purgatorio compare ancora una volta Forese, il cui volto emaciato perché punito per i peccati di gola di quando era in vita suscita la pietà di Dante che, però, appare sollevato nel saperlo prossimo alla salvezza eterna, e questo proprio grazie alle preghiere di Nella, che hanno consentito al marito di attraversare più velocemente le altre cornici più basse del Purgatorio, dove forse Forese avrebbe dovuto sostare per espiare altri peccati (vv. 85-90); nel canto III del Paradiso protagonista è la di lui sorella, Piccarda, annoverata da Dante tra gli spiriti difettivi del I Cielo della Luna, la quale, fin dal suo primo apparire, dà del Paradiso l’immagine di un mondo lieto e pacifico.

La Gemma del romanzo, infine, non solo dà prova di abilità, come la Gemma personaggio storico, ma si dimostra consapevole del proprio valore innanzitutto di moglie, tanto da suggerire a noi lettori che la Beatrice cantata da Dante non abbia in realtà nulla a che fare con la Portinari sposa di Simone de’ Bardi, ma proprio con lei stessa, Gemma, che, con la sua vita di moglie fedele, ha dato beatitudine al suo uomo, rivelandosi per lui una Beatrix, cioè “colei che porta beatitudine”, e lui gliene rende atto coi versi sublimi che ancora oggi avvincono e interrogano.

Ecco dunque che il romanzo della Marazza diventa occasione per conoscere Gemma e, attraverso di lei, per indagare meglio Dante, invogliandoci a una nuova e più consapevole lettura della sua Commedia.

Nicoletta Berrino

 


[1] Cfr. l’appendice Scrivere di Dante, ovvero: due chiacchiere con l’autrice, pp. 529-538.

[2] Trattatello in laude di Dante, VII, Digressione sul matrimonio: «Dierono gli parenti e gli amici moglie a Dante, perché le lagrime cessassero di Beatrice».

[3] Il matrimonio di Dante, in G. Milano-A. Montefusco (a c. di), Dante attraverso di documenti, I, Famiglia e patrimonio (secolo XI-1300 circa), «Reti Medievali Rivista» 15.2, 2014, 1-32.

[4] A. Barbero, Dante, Roma 2020, 361 pp., ed. Laterza.

[5] Cfr., tra tutti, il suo lavoro postumo su Le donne di Dante, Bologna 2021, 421 pp., ed. il Mulino.

[6] Cfr. Il sacro fonte, pp. 221-228.

[7] Cfr., tra gli altri, M. Balard, Remarques sur les esclaves à Gênes dans la seconde moitié du XIIIe siècle, in Mélanges d’Archéologie et d’Historie, 80, 1968, 627-680: lo studioso evidenzia come la percentuale maggiore di persone soggette a schiavitù fosse di sesso femminile e osserva come le donne, principalmente destinate al servizio nella casa, qualora particolarmente avvenenti, venissero indirizzate al concubinato o al baliatico, cioè all’allattamento come balia.

[8] Così S. Vecchio, La buona moglie, in G. Duby-M. Perrot, Storia delle donne in Occidente. Il Medioevo, a cura di C. Klapisch-Zuber, Roma-Bari 19963, 139-140.

[9] Tra i rarissimi ritratti di Dante con la barba vanno annoverati anche: una miniatura su un codice conservato alla Marciana di Venezia; un ritratto di Angelo Bronzino, pittore fiorentino del Cinquecento; un dipinto del russo Il'ja Efimovic Repin, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento.

[10] I due nessi si trovano in un’iscrizione funeraria, databile al II secolo a.C., che celebra una certa Claudia, moglie e madre esemplare (ILS 8403).

[11] Cfr. Berrino N.F., Mulier potens: realtà femminili nel mondo antico, Galatina (LE) 2006, 58-59.

[12] Cfr. M. Montesano, La circolazione di motivi stregonici tra folklore e cultura scritta, in D. Corsi-M. Duni (a cura di), “Non lasciar vivere la malefica”. Le streghe nei trattati e nei processi (secoli XIV-XVII), Firenze 2009, 155-166.

[13] Cfr. VII, Digressioni sul matrimonio.

[14] Ibid., «come che vero sia che, o simili cose a queste, o altre che ne fosser cagione, egli, una volta da lei partitosi, che per consolazione de’ suoi affanni gli era stata data, mai né dove ella fosse volle venire, né sofferse che là dove egli fosse ella venisse giammai; con tutto che di più figliuoli egli insieme con lei fosse parente».

[15] Rime 87-88.

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