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Pierre Hadot, "Esercizi spirituali e filosofia antica"

pierre Hadot.JPGIl libro del filosofo Pierre Hadot (nella foto) citato nel titolo "ricostruisce la storia di un sistema di pratiche filosofiche che si proponeva di formare gli animi piuttosto che informarli, attraverso un lavoro su se stessi che coinvolgeva non solo il pensiero, ma anche l'immaginazione, la sensibilità e la volontà. Così interpretata, la filosofia diviene per gli antichi esercizio attivo, continua rimessa in discussione di se stessi e del proprio rapporto con gli altri, uno stato di liberazione dalle passioni, di lucidità perfetta, una maniera di vivere prima che un sistema di pensiero. Dal dialogo socratico e platonico a Epicuro, da Seneca a Epitteto fino all'età contemporanea, il libro esplora la centralità, il declino e l'intermittente ripresa di una dimensione riflessiva della storia del pensiero". Le osservazioni sul testo inviateci dal carissimo amico prof. Giuseppe Costantino che trovate di seguito, sono particolarmente interessanti e suscitano ulteriori riflessioni.  (la redazione)

Il crociano “non possiamo non dirci cristiani” ci induce a riferirci ad Ignazio di Loyola quando si parla di Esercizi spirituali, ma l’autore di questo prezioso libro, ci riporta alla filosofia antica, quando la riflessione filosofica era un modo di vivere, una forma di vita, una scelta di vita. L’esercizio spirituale per Hadot si configura come una pratica, esercizio appunto, destinata ad operare un cambiamento dell’essere. “Spirituale” perché include il pensiero, l’immaginazione, la sensibilità, la volontà.

Tutte le scuole, dai cinici agli epicurei, dai platonici agli stoici, sono orientate a vivere filosoficamente la vita quotidiana e persino la vita pubblica, e ad ogni scuola corrisponderà un atteggiamento interiore peculiare: la tensione per gli stoici, la distensione per gli epicurei, una retorica ampollosa per gli accademici.

La teoria era messa al servizio della pratica. Non affermava forse Epicuro che lo scopo della scienza della natura è quello di procurare la serenità dell’anima? Così pure per gli aristotelici che considerano l’attività teorica come maniera di vita che procura un piacere e una felicità quasi divini.

La filosofia come scienza della vita dunque. Gli stoici lo dichiarano apertamente, per loro la filosofia non consiste nell’insegnamento di una teoria astratta o in un’esegesi di testi, ma nell’arte di vivere, in un atteggiamento concreto, uno stile di vita che informa tutta l’esistenza.

Per permettere gli esercizi di meditazione si mettevano a disposizione dei principianti sentenze o riassunti dei principali dogmi delle scuole da ripetere come dei mantra.

I contenuti concettuali di tali esercizi differivano da scuola a scuola: mobilitazione dell’energia e consenso al destino per gli stoici, distacco per gli epicurei, concentrazione mentale e rinuncia al sensibile per i platonici.

Ma in questa diversità c’è un’unità profonda, nei mezzi impiegati come le tecniche dialettiche e retoriche di persuasione, il padroneggiamento del dialogo interiore, la concentrazione mentale. Il fine poi di tutte le scuole è il miglioramento e la realizzazione di sé.

La formazione era sempre orale, poiché solo la parola orale permette il dialogo nello scambio di domande e risposte e consente al maestro di adattare il suo insegnamento ai bisogni dell’allievo. Le stesse opere scritte restano legate all’oralità, sono spesso dettate ad uno scrivano e sono destinate ad essere lette ad alta voce e la stessa sintassi ne mima le cadenze dell’eloquio.

Ad una prima impressione può sembrare che Ignazio di Loyola abbia dedotto il metodo degli esercizi spirituali dalla rinascita degli studi della retorica antica del XVI secolo ma non è così, dal momento che già nei primi secoli, la chiesa cristiana aveva raccolto in parte l’eredità della filosofia antica con il corredo delle sue pratiche spirituali. Gli esercizi spirituali sono stati una parte importane in quella corrente del cristianesimo antico, quella che definiva lo stesso cristianesimo come una filosofia.

Questa assimilazione ha avuto inizio con gli scrittori cristiani del II secolo; Apologisti, in particolare con Giustino. Ora se il cristianesimo poteva essere assimilato a una filosofia era perché la filosofia stessa era già un modo di essere, uno stile di vita.

Atanasio nella sua Vita di Antonio scritta nel 357 ci dice che quando il santo si convertì alla vita monastica si mise a “fare attenzione a se stesso”, tanto da raccomandare ai suoi discepoli di annotare per iscritto le azioni e i moti dell’animo.

Sono tanti gli esempi di esercizi monastici che riecheggiano la filosofia antica. Quando Doroteo di Gaza raccomanda ai suoi discepoli di esercitarsi dapprima nelle piccole cose, al fine di creare un’abitudine, come non pensare ad Epitteto o quando Evagrio propone di combattere una passione con la passione che le è contraria forse che non rimanda al metodo proposto da Cicerone nelle sue Tusculanae? La stessa mistica neoplatonica la ritroviamo nella mistica cristiana dei domenicani come Maestro Eckhardt.

Nell’antichità e nel medioevo monastico dunque la filosofia non designa una teoria, ma una saggezza, una maniera di vivere secondo ragione, ma nelle Università la filosofia viene ridotta ad ancilla theologiae diventando un’attività teorica, astratta e non più un modo di vivere. Professori che formano professori, un insegnamento che non si rivolge più a uomini affinché siano uomini, ma a specialisti perché imparino a formare altri specialisti. Questo filone di pensiero ha incominciato a delinearsi fin dall’antichità, si è sviluppato nel medioevo e se ne può avvertire la presenza nella filosofia attuale.

Giuseppe Costantino

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