Scrivere di sé….per sé.
I greci prima con epimelestai eauton (occupati di te stesso), e i romani poi con la scoperta dell’otium contemplativo si avvidero che la scrittura delle proprie memorie li faceva stare meglio. E Michel Foucault ha ricostruito nelle sue ultime opere le “pratiche” della “cultura del sé” in Grecia e a Roma agli albori del Cristianesimo che vide la nascita dell’individualismo occidentale laddove “l’intensità dei rapporti con sé faceva assumere se stessi come oggetto di conoscenza per trasformarsi, correggersi, purificarsi, edificare la propria salvezza”.
Quando ci si rivolge al proprio passato è possibile un ri-pensamento e l’esperienza di sé che si forma in questo possesso è quella di un piacere che si trae da se stessi. A questo sapere autobiografico si ispirarono in funzione mistica i padri della Chiesa Sant’Agostino prima, Abelardo poi e Santa Teresa d’Avila e Sant’Ignazio secoli dopo; mentre Seneca e Marco Aurelio scrissero lettere e “ricordi” in funzione auto terapeutica.
Ma oggi tutti possono permettersi questa cura? Certo, ha risposto lo psicologo clinico Paul Fraisse, ma non nei casi patologici, perché la disorganizzazione causata dalla malattia non lo consente.
Noi siamo il nostro racconto dice Ricoeur, è quando non abbiamo nulla da raccontare (Benjamin), che non riusciamo più a dare senso alla nostra esistenza. Scrivere di sé serve a dare forma compiuta alla vita che per sua natura, per il suo fluire, non può avere, al punto che gli avvenimenti più comuni si trasformano in avventura.
Nel racconto ci sono le giustificazioni delle nostre scelte o la semplice rappresentazione. Nel racconto del viaggio della propria vita può affiorare la nostalgia per ciò che è stato e vissuto con pienezza, ma anche di quello che abbiamo lasciato e questo sentimento ci allontana dalla dittatura del presente con i suoi bisogni acquisitivi.
La scrittura autobiografica può essere un argine all’inerzia dell’esistente, il racconto steso sulla pagina arresta l’erranza dei ricordi, che quando affiorano di tanto in tanto alla coscienza possono far male. L’atto della scrittura depura i ricordi più dolorosi dalle scorie emotive e diventano memoria a sostegno del presente.
Indagare poi su se stessi significa indagare su cosa si è pensato del mondo e del nostro essere nel mondo.
Scrivere di sé ci fa incontrare una vita, la propria, con il suo sviluppo, le sue apicalità che l’hanno connotata, come se fosse quella di un altro.
L’autobiografia, a ripercorrerla nel tempo e nella sua ampiezza, senza tralasciare nulla in disparte, è curativa se si realizzano alcune condizioni. La prima, quella che Duccio Demetrio chiama della dissolvenza in cui le immagini ci appaiono sbiadite, crepuscolari, sfumate nei contorni, vaghe. Indipendentemente dal ricordo il richiamo ci giunge da lontano, mai completamente a fuoco. Immergere mente e corpo in queste dissolvenze ci fa staccare dai fastidi quotidiani. Non è forse il distacco mentale ed emozionale un importante requisito del benessere, spesso perseguito con la meditazione e con svariate tecniche di rilassamento? Questo proviene da noi stessi e solo da noi.
Ma la mente non si accontenta solo di evocare, ma ha bisogno di mettere in una rete o in una trama i ricordi, costruire un testo ricorrendo ad interspazi che legano e danno direzione fino a farci individuare il telos della nostra vita.
Di più, costruire un testo della propria vita non per fare una storia, ma per attestare la nostra presenza nel mondo. Si pensi quanto urgente sia stato questo bisogno per chi, privo di alfabetizzazione, ha imparato a scrivere in età adulta solo per fissare sulla pagina o addirittura su un lenzuolo, come Clelia Marchi, la traccia di sé nel mondo, ora rinvenibili nell’archivio di Pieve Santo Stefano.
Giuseppe Costantino
Esperto di scrittura autobiografica.