A fronte della mancata presa di posizione della Biennale d’Arte circa la discutibile condotta di Israele nella reiterata violazione dei diritti del popolo palestinese, si costituisce un’alleanza di artisti e personalità della cultura che ne chiede la chiusura del padiglione nazionale
Ha già raccolto oltre 6.500 firme l’appello promosso dall’alleanza di artiste e artisti e operatrici e operatori culturali Art Not Genocide Alliance (ANGA) per chiedere l’esclusione di Israele dalla Biennale d’Arte di Venezia alle porte. Una richiesta avanzata per la convinzione che “qualsiasi rappresentazione ufficiale di Israele sulla scena culturale internazionale sia una legittimazione delle sue politiche genocide a Gaza”, con chiaro riferimento a quanto sta succedendo nel conflitto che oppone Israele e Hamas a seguito dell’azione terroristica del 7 ottobre 2023, provocando un ingiustificato spargimento di sangue tra i civili palestinesi.
“Riteniamo”, sostengono i firmatari della lettera aperta alla sottoscrizione online “che la Biennale stia promuovendo uno Stato di apartheid genocida, e richiediamo che non ci sia un padiglione del genocidio alla Biennale di Venezia”. A sostenere l’appello – mentre in Germania, in occasione della serata finale della Berlinale, si è assistito a manifestazioni di segno analogo che hanno generato un acceso dibattito nel Paese – si sono unite personalità del mondo dell’arte israeliane e palestinesi, e con loro artisti, designer, curatori, critici, poeti, musicisti, ricercatori da tutto il mondo – da Nan Goldin a Sophie Jung – tra cui molti italiani (come la piattaforma Locales) e diversi nomi che in passato hanno preso parte, a vario titolo, alla Biennale di Venezia.
La Biennale non prende posizione. I precedenti e la situazione attuale
Dal canto suo, la Biennale d’Arte, che si appresta a celebrare la sua 60esima edizione a partire dal prossimo 20 aprile, non ha ancora preso posizione riguardo la presenza di Israele, nonostante in passato – più o meno recente – non siano mancate, da parte dell’organizzazione, le manifestazioni di dissenso circa l’operato di Paesi responsabili di condotte violente, discriminatorie o contrarie al rispetto dei diritti umani fondamentali. È stato così nel 2022, con l’appoggio della Biennale al popolo ucraino e la contestuale condanna dell’aggressione militare russa, all’epoca deflagrata da qualche settimana: allora, tanto il padiglione ucraino quanto quello russo restarono chiusi, il primo per l’impossibilità di proseguire i lavori nelle condizioni di un Paese sotto attacco, il secondo per le dimissioni del curatore Raimundas Malašauskas e degli artisti russi coinvolti nella manifestazione. E anche nel 2024, la Russia non parteciperà alla Biennale, pur in assenza di dichiarazioni ufficiali che sanciscano l’assenza da parte del Ministero della Cultura russo e della Biennale stessa (presente, invece, l’Ucraina, rappresentata dagli artisti Katya Buchatska (foto a lato), Andrii Dostliev, Lia Dostlieva, Daniil Revkovskyi, Andrii Rachynskyi e Oleksandr Burlaka, negli spazi dell’Arsenale). Ma ANGA scava anche nel passato remoto della kermesse per rintracciare, nel 1968, il divieto ufficiale – esteso continuativamente fino al 1993 – di partecipare alla rassegna espresso nei confronti del Sudafrica dell’apartheid.
Il padiglione di Israele alla Biennale 2024
Israele, invece, allo stato attuale delle cose sarà presente con il suo padiglione ai Giardini, con il progetto presentato a settembre 2023 a cura di Mira LapidoteTamar Margalit, rappresentato dall’artista e regista Ruth Patir.
Si riaffaccia, come sempre più di frequente, un interrogativo morale di difficile risoluzione: a fronte di un’indiscutibile violazione dei diritti e della macchia di reiterati crimini di guerra, silenziare la presenza di Israele, boicottandone il padiglione nazionale, è la migliore delle scelte possibili per un’istituzione come la Biennale che nasce come “luogo di incontro fra i popoli attraverso le arti e la cultura”?
“Ci aggrappiamo alla convinzione che debba esserci uno spazio per l’arte, per la libera espressione e creazione, in mezzo a tutto ciò che sta accadendo”, dichiaravano Lapidot, Margalit e Patir, qualche mese fa, rivendicando la scelta di essere presenti a Venezia, dove invece non sarà inclusa tra gli eventi collaterali ufficiali della Biennale la mostra del Palestine Museum – peraltro firmatario della petizione di ANGA – ospitata a Palazzo Mora (nel 2022 era andata diversamente, con l’iniziativa ammessa al palinsesto), al contrario del progetto presentato dall’organizzazione berlinese Artists and Allies of Hebron, selezionato da Adriano Pedrosa tra gli appuntamenti collaterali. La Palestina, non riconosciuta dall’Italia come Stato sovrano, del resto, non ha mai avuto l’opportunità di presentare un proprio padiglione nazionale.
I promotori dell’appello per l’esclusione di Israele sostengono che il progetto presentato alla Biennale – che vuole riflettere sulla maternità contemporanea – non sia espressione della popolazione israeliana, ma di chi governa lo Stato che “ha ucciso più di 12mila bambini e distrutto l’accesso alle cure riproduttive e alle strutture mediche”, in barba allo sbandierato tema della fertilità che sarà presentato a Venezia. “L’arte non può trascendere la realtà” prosegue ANGA “Gli eufemismi non possono cancellare le verità violente. Qualsiasi lavoro che rappresenti ufficialmente lo Stato di Israele costituisce un’approvazione delle sue politiche genocide. Non esiste libera espressione per i poeti, gli artisti e gli scrittori palestinesi assassinati, messi a tacere, imprigionati, torturati e a cui è stato impedito di viaggiare all’estero o all’interno di Israele. Non c’è libertà di espressione nei teatri palestinesi e nei festival letterari chiusi da Israele. Non c’è libertà di espressione nei musei, negli archivi, nelle pubblicazioni, nelle biblioteche, nelle università, nelle scuole e nelle case di Gaza bombardate e ridotte in macerie da Israele. Non esiste libertà di espressione nel crimine di guerra del genocidio culturale”.
Livia Montagnoli
fonte: www.artribune.com