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Esiste un genius loci italiano? O il made in Italy è un falso mito?

Stefano-Chiodi-–-Genius-loci.-Anatomia-di-un-mito-italiano.jpegIl bel libro di Stefano Chiodi parte dalla mostra collettiva Genius Loci, curata da Achille Bonito Oliva nel 1980 presso il Palazzo di Città di Acireale.
L’esposizione è sintomatica del ritorno alla pittura in senso neoespressionistico che caratterizza quegli anni, attraversati da un atteggiamento ironico e distaccato e dal recupero del vernacolare e del folklorico. All’interno di questa branca del postmodernismo (differente, e in un certo senso opposta, rispetto a quella incentrata sulla pratica dell’appropriazione) prevale la citazione come approccio che tende ad azzerare le differenze tra stili e riferimenti (per esempio, tra avanguardia e tradizione), in nome dell’“opulenza” (Celant) dell’immagine pittorica e di un manierismo orgogliosamente cinico (quattro anni prima ABO aveva pubblicato L’ideologia del traditore).

IL MADE IN ITALY COME RETORICA FASCISTA

In tale contesto si inserisce il recupero dell’identità culturale “originaria”: il genius loci, appunto, che diventa a questa altezza una sorta di “verniciatura”, e che risulta essere di fatto la spia di Achille-Bonito-Oliva.jpguna strategia modellata sulle aspettative di un pubblico internazionale, in particolare statunitense, da tempo familiare con gli stereotipi più scontati del ‘carattere italiano’” (p. 30). Il riconoscimento di questa relazione intrinseca con lo “sguardo esterno” (che giungerà fino a oggetti culturali recenti come Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino) si rivela per Chiodi la chiave che gli permette di analizzare le altre declinazioni del concetto.
È l’italianità percepita e modellata da un processo di esotizzazione del Belpaese iniziato non decenni ma secoli fa, un modello quasi immutabile del “carattere nazionale”, che si incarna nel tardo XX secolo in forme specifiche. Non solo dunque quelle della Transavanguardia, ma anche quelle dell’Arte Povera, attraverso per esempio la retorica dell’artigianalità e della manualità contrapposta all’industrialismo e al consumismo statunitensi. Una volta depoliticizzata, infatti, anche la teoria critica di Germano Celant si appoggia volentieri, a partire dalla metà degli Anni Ottanta, alle nozioni di memoria, archeologia e Storia/storia. Sono del resto gli anni in cui si articola appieno – in particolare nei campi della moda e del design – la nozione di “made in Italy”, che rivela peraltro insospettabili legami con il modernismo fascista.

(Enzo-Cucchi-Eroe-del-mare-Adriatico-centrale)

IL GENIUS LOCI ITALIANO DALL’ARCHITETTURA AL RITORNO ALL’ORDINE

Dunque Chiodi propone e si propone di sganciarsi dalla mera filologia storico-artistica, e allarga lo sguardo soffermandosi sul dibattito architettonico e urbanistico che tra Anni Sessanta e Settanta ridefinisce il concetto di “luogo” alla luce di un’intersezione dei piani interpretativi (da Aldo Rossi e Franco Purini fino a Christian Norberg-Schulz e al suo fondamentale Genius Loci, 1979), sulle feconde ambiguità che caratterizzano le ricerche contemporanee di Federico Zevi (La percezione visiva dell’Italia e degli italiani nella storia della pittura, 1976) e di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg (Centro e periferia, 1979), oltre che sul modello pasoliniano (Le ceneri di Gramsci, 1957), vero paradigma di tutte le successive tensioni al recupero di un nucleo puro, originario, arcaico/arcadico (l’“umile Italia”).
Questo discorso conduce al nucleo tematico del libro, il ritorno all’ordine degli Anni Venti e Trenta come ritorno problematico alla purezza artistica e culturale italiana (Carrà, Sironi, Soffici, e poi lo Strapaese di Maccari, Malaparte e Longanesi). Anche il modernismo italiano del dopoguerra non andrà esente da questa “memoria nativa” (Dantini), che però giustamente secondo Chiodi si inserisce piuttosto all’interno del complesso processo di negoziazione portato avanti dalle generazioni artistiche che si susseguono dagli Anni Quaranta agli Anni Ottanta, “in cui il tema dell’identità nazionale è sì presente ma nella forma postuma di un’angoscia dell’influenza” (p. 64), e in cui “si mescolano in effetti aggressività, conflitto e misreading creativo delle novità d’oltreoceano, sullo sfondo, a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, dell’irreversibile trasformazione dell’operazione artistica in senso autoriflessivo” (p. 65).
Questo atteggiamento estremamente autocosciente e codificato ha come nume tutelare Giorgio de Chirico, figura per eccellenza dell’ambiguità e dell’ambivalenza tra modernità e tradizione, tra avanguardia e museo. E la funzione-de Chirico “ritorna”, infatti, a più riprese nell’arte italiana tra i Sessanta e gli Ottanta, tra pop o “neometafisisca”, appunto, Arte Povera, Concettuale e Transavanguardia (da Mario Schifano e Tano Festa a Renato Mambor e Pino Pascali, da Jannis Kounellis e Giulio Paolini a Luigi Ontani e Salvo attraverso Gino De Dominicis e Vettor Pisani).

(Giorgio-de-Chirico-Gli-archeologi)

FEDERICO FELLINI E UN’ITALIA NON NOSTALGICA

Analizzando le vicissitudini della nozione di genius loci negli ultimi decenni – all’insegna dell’arbasiniano “paese senza” – Chiodi si concentra poi sugli interessanti incroci tra spettacolarizzazione turistica, idea chiusa e cristallizzata di patrimonio (Settis, Montanari), marketing culturale e “presentismo” (Hartog). Infine, indagando gli ultimi sviluppi del concetto tra cinema, letteratura e arti visive (anche attraverso la nozione di “terzo spazio” elaborata da Edward Soja nel 1996), l’autore sceglie come modello di una possibile identità artistica non-nostalgica o anti-nostalgica – un’identità che (ri)attivi costantemente i conflitti invece di rimuoverli, all’insegna di una “storicità rinnovata” – la scena iniziale de La dolce vita, in cui la statua di Cristo appesa all’elicottero su cui viaggia Marcello sorvola Roma, tutta Roma e non solo quella monumentale, dalle periferie al centro, dai palazzoni del boom edilizio alle chiese rinascimentali e barocche, con gli esseri umani che abitano questi spazi. Questa scena, capace di tenere insieme e di far collassare l’una nell’altra più dimensioni (spaziali, temporali, tematiche, stilistiche), è emblematica di ciò che potrebbe forse dovrebbe fare l’arte italiana. Anche, e soprattutto, oggi.

Christian Caliandro

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(Maurizio-Cattelan-L.O.V)

 fonte:www.artribune.com

 

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