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Vangelo di Domenica 2 Giugno 2019

ascensione_gesu.jpgDal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 24,46-53. In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme.
Di questo voi siete testimoni.
E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto».
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse.
Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo.
Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia;
e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

Il Commento al Vangelo di oggi é di mons. Vincenzo Bertolone ed è stato pubblicato sul sito www.sibari.info  il 16 Maggio del 2010, lo riproponiamo perché ci sembra sempre molto valido.

Introduzione

                La Liturgia odierna  celebra la solennità dell’Ascensione e, con essa, l’inizio della Chiesa, ovvero la nascita del popolo dei nuovi credenti. Infatti, solo dopo il distacco di Gesù dagli apostoli è iniziato il cammino delle prime comunità, giunto fino a noi attraverso la storia di persone che hanno vissuto, e vivono, amando e credendo.

Con l’Ascensione celebriamo, la conclusione del ciclo della vita terrena e della missione di Gesù e l’inizio del nuovo ciclo, della vita e della missione della Chiesa. In altri termini, dal distacco di Gesù dalla terra sono scaturite la nostra responsabilità e incombenza di essere cristiani: è scattata l’ora “x” del nostro impegno: essere santi. In questo arduo cammino di santità e testimonianza, fin da subito, non siamo stati abbandonati, lasciati in balia di noi stessi e del mondo: l’esempio da guardare e seguire c’è stato dato, ma c’è stato dato anche un sostegno, una fonte dalla quale attingere quando l’energia e il coraggio della testimonianza si affievoliscono: è la certezza di una benedizione senza tempo, che dal passato giunge fino a noi con la stessa intensità di quel giorno in cui Gesù lapronunciò.

                Dunque, il significato dell’Ascensione e il valore della benedizione che Gesù ha elargito al momento del distacco, unitamente agli effetti che l’evento e l’atto avranno sulla Chiesa nascente, ci guideranno nella riflessione di questa domenica del tempo di Pasqua.

Dalla terra al cielo

                Precisiamo subito che l’evento che oggi celebriamo è un mistero, cioè un fatto inspiegabile : “…Gesù si innalza, cioè si distacca dalla terra, e scompare, si nasconde…” (Paolo VI). Accade quanto è successo per la Resurrezione: non abbiamo prove certe, tangibili, oggettive: di vero c’è che Gesù non è rimasto nel buio della tomba, è risorto ed ha raggiunto la luce di Dio.

                E se nella Pasqua della resurrezione abbiamo iniziato a nutrire la speranza che la morte non è più la parola ultima della vita, con l’Ascensione la speranza si completa nella rivelazione di una meta finale: il movimento ascensionale di Cristo ci indica il percorso e la destinazione della nostra vita.

Guardare all’evento dell’Ascensione, contemplarne il significato profondo significa allora liberarsi da una concezione ristretta e materiale dell’esistenza, per guadagnare gli orizzonti dell’eterno. Ancora, contemplare l’evento dell’Ascensione significa dare alla propria vita un’altra possibilità, una via d’uscita, una breccia attraverso la quale giungere all’infinito di Dio. Infatti, vivendo nella certezza di questo mistero ci si può aprire alla possibilità dell’eterno, giacché come risorgeremo in Cristo così come Lui, in Lui ascenderemo al cielo per vivere nel cuore del Padre.

Quindi, Gesù oggi ci apre ad una ulteriore speranza: Egli ha portato, porta con sé tutto quanto, della terra e di noi, di ieri, di oggi e domani.

                E questa è una verità che può veramente compiere il miracolo: sapere di essere con Gesù, al di là della nube dell’Ascensione, nel mistero dell’amore del Padre, rinnova il modo di vedere il mondo, la natura, se stessi, e rinnova anche il modo di percepire e affrontare la fatica, la sofferenza, il dolore, la morte perfino.

                Tuttavia, per i primi discepoli l’Ascensione fu dolorosissimo, giacché quel distacco, seppure gravido di speranze e novità, circonfuso di gloria, inaugurò l’assenza del Maestro. E anche di fronte a questa apparente assenza si fa avanti il mistero di una presenza invisibile. L’Ascensione, infatti, non segna una separazione dalla Persona, bensì una diversa comunione con Essa: l’unione con la persona di Cristo avviene attraverso la realtà dello Spirito, in cui l’umanità del Maestro si è dilatata, aprendosi a più ampie possibilità. Di fatto Gesù è con noi: “nel sacramento della sua parola, ovvero della sua immagine riflessa nell’umanità sofferente, …nella sua Chiesa vivente e testimoniante, e finalmente nella realtà sacramentale e sacrificale eucaristica” (Paolo VI). Multiforme Presenza, dunque, quella di Gesù, che fa di ogni momento, se veramente crediamo, un’occasione per incontrarLo.

                L’Ascensione è anche festa della Chiesa, che finalmente appare nella sua giusta prospettiva. Sgombrando il campo da superficiali giudizi ed errate o discutibili convinzioni, scopriamo quanto sbagliata sia la fede di quei credenti che dichiarano: “Io amo Cristo, ma non la Chiesa”, come se le due realtà si potessero separare a loro piacimento. Mi duole deludere chiunque la pensi così, ma la Chiesa è Cristo stesso, è carne della sua carne, e Cristo è la Chiesa stessa, anima della sua anima. Perciò, come un corpo non può essere vitale senza l’anima, e l’anima non sussiste senza il corpo finché dura la vita, così la Chiesa non può vivere senza Cristo, e Cristo non può essere amato se non si ama la Sua Chiesa.

                Se amiamo Cristo, amiamo la Chiesa; se amiamo la Chiesa, amiamo Cristo, e se amiamo entrambi l’annuncio del Vangelo non sarà più un (dovere), ma un’esigenza profondamente avvertita, perché contemplando la vita e il proprio destino, alla luce del mistero di Cristo risorto e asceso nasce spontaneo il desiderio di raccontare, comunicare, da persona a persona, da cuore a cuore, la straordinaria esperienza della fede che cresce, si nutre e si sostiene nell’unità della comunità alla quale si appartiene.

Una benedizione senza fine

                La comunità, dunque, è una realtà certo non trascurabile se parliamo di fede. Del resto è nella comunità che ancora oggi sentiamo quella benedizione finale di Gesù, al momento dell’ascesa. Essa suona molto di più di un semplice “dire bene di noi”: di fatto è, il testamento del Maestro, che tuttavia sottintende parole non pronunciate. Esse, infatti, restano tra cielo e terra, sovrastano la storia, integrano le nostre dubbiose fragilità, discendono come balsamo sulle nostre ferite e delusioni, rialzano e confortano chi cade ed è afflitto, assicurano che la vita ha vinto la morte e l’amore è più forte dell’odio.

Sono parole che benedicono, salvano, rinnovano e impegnano.

                Impegnano perché ci dicono che siamo benedetti, ovvero Qualcuno ha trovato del bene dentro di noi, ed è questo che dobbiamo annunciare. Dobbiamo annunciare che il Signore ci ha lasciato benedizioni e non giudizio di condanna, parole di stima e non di biasimo sull’uomo, parole di gratitudine per il poco amore che siamo capaci di dargli e non rimproveri per la sua esiguità.

Una benedizione siffatta non può che farci uscire allo scoperto: noi pensavamo di nasconderci dietro l’ombra di Dio, e invece dobbiamo presentarci perché è Dio a nascondersi dietro l’ombra dell’uomo. In altri termini, siamo noi a rendere visibile sulla terra la vita bella e santa del Regno di Dio, ad essere artefici di una sorta di capovolgimento logico da “come in cielo così in terra” a “come in terra così in cielo”. Si tratta di una consegna, di un mandato precisi: testimoniare con la vita, più che con le parole tutta la novità e la speranza del Vangelo.

Attenzione! con la vita, non con le parole, perché “Chi non crede non si domanda se è esistito Cristo, si chiede: esistono i cristiani?” (A, Pronzato). Ovvero, ci sono uomini i quali, più che predicare la pace sono costruttori di pace? Ci sono uomini che oltre a predicare la giustizia, sono veramente uomini giusti? Ci sono, infine, uomini che non soltanto conoscono parole di speranza, ma vivono di speranza e danno speranza? Io credo che ce ne siano. Anzi, senza saperlo, ne incontriamo tanti, anche nelle nostre comunità, che non si mettono in mostra, ma con la propria vita sono avvisi di eternità, annunci del mondo nuovo, che intravediamo in Cristo, crediamo in Cristo, anticipiamo in Cristo.

Conclusione

                Il cardinale Suenens scriveva: “Finché il cristiano è umanamente spiegabile, non meraviglia nessuno, non turba le regole del gioco né il conformismo dell’ambiente. Ma appena vive la sua fede comincia a diventare un problema: stupisce per gli interrogativi che fa sorgere attorno a sé”.

Sì, il cristiano per essere credibile deve saper suscitare stupore attorno a sé: solamente in questo modo sarà sulla terra segno visibile del mistero di Cristo, dunque artefice del “come in terra così in cielo”.

 

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