Quando parliamo di umanesimo, oggi, continuiamo a prendere lezioni dal mondo antico, non soltanto in riferimento al significato della parola, ma anche dall’aggettivo “nuovo” che lo precede. «L’uomo varca gli Oceani - così recita il primo coro dell'Antigone elencando idealmente i benefici dell’eroe Prometeo - doma le fiere, apprende da solo e parola e pensiero di vento e desiderio di politica, e oltre ogni speranza egli ha il sapere della tecnica. Ha escogitato ogni rimedio per mali irrimediabili, ma alla morte non ha trovato rimedio. Per questo è l'essere più stupendo e tremendo».
Un rimedio per la morte: impossibile, è la parola in risposta che viene usata nella tragedia greca. Insomma, nelle parole del tragico greco, l’umano appare in grado di risolvere i problemi della téchne, ma rimane comunque problema a se stesso, come è successo anche a noi durante questa grave pandemia. Contando ancora i morti, stiamo cercando rimedi a tutti i livelli: sanitario, economico-finanziario, operativo, organizzativo. Se si trattasse soltanto di una macchina umana e planetaria, essa sarebbe ordinata, prevedibile, programmabile, ed invece, come il virus coronato che l’ha attaccato inaspettatamente, l’uomo si mostra confuso, impreparato, imprevedibile. Tutto ciò anche se la filosofia ricorda che il negativo e il male si evocano, sempre e comunque, in riferimento a un positivo (anche chósè detto in riferimento a un prima che è kósmos). Siamo in grado di creare la forma perfetta del cerchio, eppure rimaniamo - come scrisse Alcmeone nel VI secolo a. C. - un cerchio incompiuto, un arco che si svolge lungo “l'arco della vita”. Per questo moriamo, sbagliamo, ci percepiamo inevitabilmente caduchi e contingenti: nel cerchio, perfetto, inizio e fine coincidono nell' arco. Per un’affascinante, ma rischiosa ambiguità linguistica, la morte e la vita sono contenute dall’unica parola bios.
Forse non c’è rimedio al male, alla morte, alla violenza, al disumano? Quante volte ce lo siamo domandati in questi giorni: a volte, perché sopravviva una fede religiosa, siamo pronti alla violenza, addirittura all’assassinio, e non soltanto nelle aberranti forme dell’integralismo contemporaneo. In epoca già cristiana, esattamente nel corso del secolo quarto dopo Cristo - che gli esperti hanno definito il secolo della controversia ariana, riferendosi all’indirizzo di pensiero iniziato dal Vescovo Ario di Alessandria - si combatté a lungo, perfino all’interno del clero e non soltanto con armi spirituali e culturali, ma con parole di violenza per affermare parole di pace e di vita! In Oriente Atanasio e, in Occidente, Ilario, furono costretti all’esilio dalle loro sedi episcopali, accusati dai loro confratelli nell’episcopato. Tutto nacque dall’uso di una parola non biblica per descrivere i rapporti tra il Verbo eterno e il Padre dei cieli. Al concilio di Nicea del 325 d.C., voluto e presieduto dall’imperatore Costantino, i Vescovi partecipanti sottoscrissero la famosa formula: il Verbo è della stessa ousìadel Padre (oggi, nel Credo, diciamo “della stessa sostanza del Padre”). Quell’espressione ardita, ripresa più dalla filosofia che dalla Bibbia, affermava la perfetta eguaglianza tra Figlio e Padre, contro Ario che da tempo sosteneva e continuò a sostenere qualcosa d’altro e per circa cent’anni tenne in vita discussioni con le formule della stessa sostanza, di una sostanza simile, di una sostanza uguale…Ario, invece di affermare che il Figlio è generato, non creato, ragionava sul significato del termine “generato”: se è stato generato in un certo tempo, non era da considerare eterno quanto il Padre, né della stessa sostanza del Padre; anzi il Figlio, proprio perché generato dal padre, doveva essere stato “creato” come prima, seppur divina, creatura. A lungo potere politico imperiale e Vescovi si divisero e si combatterono. Qualche papa, oltre a tanti Vescovi, dovettero soffrire l’esilio, non senza le scelte di politica religiosa imposta dall’imperatore Costanzo II, amico degli ariani e non dei filo-niceni. Ma poi, proprio grazie a quella espressione teologica così controversa – della stessa sostanza del Padre - ci fu la genesi di un rimedio positivo: il ricompattamento e la rinascita del mondo cristiano avvenne grazie al termine sostanza: anche se generato, il Figlio non è stato creato, bensì è della stessa sostanza del Padre.
Scenari/23. Persona.
Qualche secolo dopo, un altro momento di svolta ritornerà proprio all’uso della compromessa parola “sostanza”, però, applicata stavolta all’essere umano. Stava per nascere la definizione cristiana di persona, che contraddistinguerà l’evo moderno e contemporaneo, inserita nelle dichiarazioni internazionali della Dichiarazione dei diritti ed anche nella nostra Costituzione. All’epoca del nostro Magno Aurelio Cassiodoro, Severino Boezio (nel sesto secolo d.C.) propose una fortunata definizione di persona: sostanza individuale di natura razionale. La definizione farà epoca e tuttora vige per la sua caratteristica di esistere autonomamente proprio per fondare i diritti della persona e dell’uomo, gli stessi invocati durante la pandemia: diritto alla vita, alla libera scelta di fronte alle cure, alla libertà di culto, ed altri ancora. Nel XIII secolo San Tommaso d’Aquino condivise il concetto di persona di Boezio, peraltro nel corso di un’ennesima controversia teologica, precisando però che per far sì che esso possa essere detto non soltanto dell’essere umano, ma delle stesse Persone divine. “La persona è un distinto sussistente di natura intellettuale”, sentenzia l’Angelico; e ne sviluppa tutte le potenzialità insite nel termine, in particolare fondando la dignità e il valore della persona umana sulle stesse Persone trinitarie. E tuttavia, in questa piccola storia di scenari che si alternano alla luce di una parola-guida, il pensiero filosofico successivo, pur mantenendo il termine persona, ne ha travisato sempre più profondamente il concetto, a tal punto che nel secolo breve Peter Singer giunge ad affermare che le scimmie, quanto a consapevolezza e capacità di risolvere i problemi, sono delle “persone”, mentre lo sarebbero molto di meno i neonati, gli anencefalici e coloro che, per le malattie della vecchiaia, si dimostrano sempre meno capaci di autoriconoscimento e di autoconsapevolezza. L’essere umano non è più inteso come una realtà sostanziale unitaria e come uno spirito incarnato, come lo era nel pensiero rinascimentale.
Nel 1486 Giovanni Pico della Mirandola lancia la sua parola “magica” al servizio della lenta costruzione di un vero umanesimo: dignità. L’umanista pubblica la sua famosa Orazione sulla dignità dell’essere umano: «Rispettabilissimi Padri, ho letto, nei testi Arabi, che Abdallah Saraceno interrogato su che cosa, in questa sorta di scena del mondo, considerasse sommamente mirabile, rispose che non scorgeva nulla di più mirabile dell'essere umano». In una prospettiva che sarà poi denominata interculturale, prende spunto da testi arabi per elaborare un vero e proprio cantico alla dignità dell’essere umano. Il Creatore l’ha voluto come singolo di fronte a lui: «Prese perciò l'uomo, opera dall'immagine non definita, e postolo nel mezzo del mondo così gli parlò: “Non ti abbiamo dato, o Adamo, una dimora certa, né un sembiante proprio, né una prerogativa peculiare affinché avessi e possedessi come desideri e come senti la dimora, il sembiante, le prerogative che tu da te stesso avrai scelto. Agli altri esseri una natura definita è contenuta entro le leggi da noi dettate. Tu, non costretto da alcuna limitazione, forgerai la tua natura secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti ho posto in mezzo al mondo, perché di qui potessi più facilmente guardare attorno tutto ciò che vi è nel mondo».
Dotato di “sguardo unico in mezzo al mondo”, Adamo e tutti i suoi successori avrebbero potuto finalmente esercitare l’arbitrio su tutto ciò che è nel mondo, in quanto tutta la loro casa ed anche perché il loro istinto è modellato dalla libertà. Insieme con la grandezza di questi semi di “umanesimo”, albeggiava tuttavia, all’orizzonte un’eventualità potenzialmente negativa: trasformare il libero arbitrio in un arbitrio sfrenato, sopraffattore, devastatore del cosmo e degli altri. Insomma, vi è sempre un equilibrio instabile tra soggettività umana libera e autonomia degli altri e dello stesso cosmo, come stiamo oggi vedendo nella reazione patologica che la casa comune sta avendo nei confronti degli esseri umani, allorché ci getta addosso quei virus killer, sia pure “coronati”.
+ P. Vincenzo Bertolone S.d.P.
Arcivescovo di Catanzaro Squillace