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Ma si può ancora credere per scommessa?

pascal scommessa.jpgIl famoso argomento di Pascal ha sempre suscitato posizioni contrastanti. Voltaire ne fu ossessionato ma l'accusò di indegnità morale, come poi Gramsci e Jonas. Dimenticando che era rivolto non ai credenti e nemmeno agli atei, ma a coloro che si trovavano nel dubbio.

Blaise Pascal (1623-1662) può essere facilmente annoverato tra i pensatori che a leggerli suscitano propensioni contrastanti. Tra i motivi che più hanno contribuito a rendere difficile un giudizio uniforme sul suo pensiero va indubitabilmente incluso l'argument du pari, la celebre scommessa

pascaliana contenuta nelle Pensées, con cui si invita a puntare sull'esistenza di Dio senza esitare, perché così facendo non si ha niente da perdere e tutto da guadagnare. Si può tranquillamente affermare che non esiste tesi teologico-filosofica più discussa e criticata dell'argument du pari, ma allo stesso tempo anche fraintesa, non foss'altro perché da un lato molti commentatori dal 1670 (data della prima edizione delle Pensées di Port- Royal) in poi non hanno avuto a disposizione una redazione filologica e completa del testo pascaliano, dall' altro perché per essere ben compreso l'argomento pascaliano esige di venire storicamente contestualizzato, cosa quest'ultima che non sempre si è verificata. È allora innanzitutto opportuno riportare in estratto il frammento originale di Pascal: Bisogna scommettere. Non è volontario, voi siete imbarcati [vous étes embarqué], [... ]Pensiamo il guadagno e la perdita, assumendo per croce che Dio esiste. Valutiamo questi due casi: se voi vincete, guadagnate tutto; e se voi perdete, non perdete niente. Scommettete dunque che Egli esiste, senza esitare. [...] Voi sareste imprudente, allorché siete forzato a giocare, a non arrischiare la vostra vita per guadagnarne tre, a un gioco in cui vi è uguale rischio di perdere e di guadagnare. [. .. ] Ma qui c'è un'infinità di vita infinitamente felice da guadagnare, una possibilità di guadagno contro un numero finito di possibilità di perdita, e ciò che giocate è finito. Ciò toglie ogni incertezza: dovunque c'è l'infinito, e dove non c'è un'infinità di possibilità di perdere contro quella di guadagnare, non vi è da esitare, bisogna dare tutto.[... ] Ciò è probante [Cela est démonstratifi, e se gli uomini sono capaci di qualche verità, questa è una (Fr. 418/233).

In breve: premesso che la ragione è fuori dal gioco perché non può dire nulla sull' esistenza del Dio cristiano; premesso che scommettere non è facoltativo, bensì obbligatorio, dal momento che non decidere equivale già a decidere di rifiutare la proposta cristiana (<<Chi crede non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato» - Gv3,18); ne consegue che occorre affidarsi alla scelta più vantaggiosa,che è indiscutibilmente quella di puntare tutto sul Dio biblico, poiché se si vince si guadagna una beatitudine infinita, mentre se si perde non si perde niente. Inoltre, visto che si tratta di un gioco alla pari (50% di probabilità di vincere e 50% di perdere), sarebbe irrazionale preoccuparsi di preservare questa nostra vita destinata a finire piuttosto che metterla in gioco per vincere una beatitudine infinita. Non a caso il frammento pascaliano è stato intitolato Infinirien (“Infinito -nulla”) per rimarcare come l'opzione per noi sia sempre tra un bene o una felicità infinita (une infinité de vie infiniment beureuseie il niente di un'insignificante esistenza mondana, sovente corrotta dai plaisirs empestés (“piaceri impestati”).

Chi legge per la prima volta l'argument du pari normalmente rimane perplesso e lo rilegge una seconda volta, perché incontra una certa difficoltà a formarsene un giudizio preciso. Come commentava un curatore

ottocentesco di un'edizione delle Pensées, la prima impressione «avverte che ci potrebbe essere un difetto in questa strana dimostrazione, ma si fatica a coglierlo» (E-A-E. Havet, Pensées de Pascal, Paris,Dozobry et Magdeleine, 1866). È infatti un modo di difendere la fedecristiana che non può non sconcertare il credente, poiché difficilmente è disposto ad accettare che si possa credere per mera convenienza come quando si decide di puntare una somma al tavolo da gioco, mentre il non credente resta a sua volta spiazzato perché non si aspetta disentirsi proporre di convertirsi per un puro calcolo utilitaristico. Anche per questa ragione l'argomento di Pascal incorse subito nelle critiche non di rado indignate sia dei credenti sia dei non credenti. Non è pensabile esaminare qui tutte le contestazioni mosse alla scommessa pascaliana; ci limiteremo pertanto soltanto a tre: quella di illogicità e irrazionalismo, quella della contraddizione con la dottrina della grazia e quella di indegnità morale.

Iniziamo con la posizione di chi accusa il pari di essere una «mostruosità

logica», di non avere cioè dal punto di vista logico-formale né capo né coda, di non essere né coerente né pertinente. Questa tesi è stata per esempio evidenziata dal francesista Paolo Serini (1899-1965) in una sua celebre monografia (Pascal, Torino, Einaudi, 1975). C'è inoltre chi come Ludovico Geymonat (1908-1991) ha bollato senza mezzi termini la scommessa pascaliana come un modo di argomentare «sostanzialmente irrazionalistico» (Storia del pensiero filosofico escientifico, val. II, Milano, Garzanti, 1970) oppure chi l'ha intesa quale puro fideismo avulso dal ragionamento logico ovvero quale salto oltre il razionale, come per esempio hanno fatto il filosofo Luigi Pareyson (1918-1991- cfr. Kierkegaard e Pascal, Milano, Mursia, 1998) e il suo allievo Gianni Vattimo (cfr. Credere di credere, Milano, Garzanti, (1996), se non addirittura come una forma di misticismo (in Italia Eustachio Paolo Lamanna in Storia della filosofia, val. III, Firenze,Le Monnier, 1967). A un Pascal mistico irrazionalista pensava pure il filosofo russo Lev Isaakovic Sestov (1866-1938), il quale per altro si diceva solidale con lui, perché lo considerava l'emblema della nostra condizione tragica (cfr. La notte del Getsemani. Saggio sulla filosofia di Blaise Pascal, Milano, Luni, 2017). In realtà se, come ha notato il teologo Romano Guardini (1885-

1968) nelle sue riflessioni su Pascal (Pascal, Brescia, Morcelliana, (1992), nel pensatore francese sussiste indubbiamente un afflato mistico, questo tuttavia non offusca mai completamente la ragione; e sebbene l'argomento pascaliano per il modo con cui è scritto può immediatamente fornire la sensazione di essere in presenza di una serie sovrapposta di riflessioni non sempre ben connesse tra loro e a volte perfino contraddittorie, l'insieme dei ragionamenti segue un proprio filo logico e soprattutto un certo metodo. Il metodo è quello tipico della geometria (méthode géometrique), che è il solo che «sa le vere regole del ragionamento» (B. Pascal, De l'esprit géométrique), integrato però coi principi dell' argomentazione persuasiva definiti dallo stesso Pascal nel De l'art de persuader. Per dimostrare l'infondatezza dell'accusa di puro irrazionalismo, è invece sufficiente ricordare che lo stesso filosofo francese ha più volte parlato di «due eccessi inaccettabili:escludere la ragione, non ammettere che la ragione» (Pensées,fr. 183/253).

Una seconda critica mossa a Pascal è quella dell'insanabile contraddizione

nel suo pensiero tra la proposta della scommessa e la fede giansenista nella salvezza per gratia efficax ovvero per sola iniziativa divina e nella predestinazione dei salvati. In altri termini, a che serve un argomento volontaristico e utilitaristico come il pari se il destino di ciascun singolo individuo è già deciso ab origine dal Creatore, se la sua salvezza prescinde dalla scelta di puntare pro o contro il Dio cristiano?

Questo dilemma ha permesso ad alcuni studiosi e critici di raffigurare il filosofo francese come uno scettico pirroniano intimamente combattuto, come uno che rimaneva perplesso circa l'ammissibilità della salvezza per via razionale e volontaristica, ma non accettava di arrendersi totalmente al dubbio. Stando infatti alle parole del filosofo spagnolo Miguel de Unamuno (1864-1936), Pascal «ha cercato la salvezza in uno scetticismo che amava contro un dogmatismo intimo, di cui soffriva. [... ] Ma poi non si rassegnava, non si sottometteva al dubbio, alla negazione alla sképsis, aveva bisogno del dogma» (I.;agonia del cristianesimo, Milano, SE, 2006). Una volta esclusa la leggenda del «Pascal scettico», perché obiettivamente poco fondata negli scritti pascaliani, quella dell'effettiva facoltà dello scommettitore di poter scegliere la propria salvezza resta una delle contestazioni più insidiose per l'argument du pari, rispetto alla quale si può avanzare soltanto l'ipotesi che la scommessa rientri in una visione "compatibilista" di ascendenza agostiniana; visione che concilia il libero arbitrio con l'onniscienza/onnipotenza divina, la libertà umana con la grazia salvifica. In questo contesto, il pari andrebbe dunque concepito come uno dei tanti strumenti attraverso i quali la gratia efficax agisce nei confronti dei prescelti da Dio per essere salvati. Ma la critica probabilmente più nota e più ricorrente mossa alla scommessa pascaliana è quella di indegnità morale avanzata tra i primi da Voltaire (1694-1778). Questo pensatore, che agli occhi dello storico della filosofia Ernst Cassirer (1874-1945) appariva come ossessionato dagli argomenti pascaliani (cfr. La filosofia del!' illuminismo, Firenze, LaNuova Italia, 1973), nelle sue Lettres philosophiques sostiene di rispettare il genio di Pascal e tuttavia definisce la scommessa un argomento «un po' indecente e puerile [un peu indécent et puéril]», dal momento che «questa idea del gioco, della perdita e del guadagno non conviene minimamente alla gravità del soggetto» (Lettres philosophiques, XXV,5). L’argument du pari sarebbe insomma un espediente utilitaristico eticamente riprovevole e offensivo della dignità umana e della stessa religione cristiana; infatti un Dio onnipotente e giusto come quello dei cristiani dovrebbe aborrire un atto di fede dettato dalla mera convenienza. Sulla linea dell'indegnità morale, in epoca più recente si sono schierati in molti. Ci accontentiamo qui di ricordare il filosofo pragmatista americano William James (1842-1910), che con tono sdegnato ha affermato che «quando una fede religiosa si esprime così [con il gioco d'azzardo], è agli sgoccioli [itis put to its last trumps]» (Volontà di credere, Principato,Milano 1970) ossia è giunta ormai alla sua «ultima spiaggia», e ilpensatore comunista italiano Antonio Gramsci (1891-1937), che vede nella scommessa pascaliana «un modo di pensare che si vergogna di se stesso» (Quaderni del carcere, Quaderno 16 (XXII), Torino, Einaudi,

1977). Indignato quanto e forse più di James e di Gramsci si è detto pure il filosofo di origine ebraica Hans Jonas (1903 -1993 ), che rifiuta recisamente di fare dell' esistenza umana un rischio da giocatore di roulette

o di dadi, anzi proprio da ciò trae il suo principio etico basilare secondo cui «non si deve mai fare dell' esistenza o dell' essenza dell'uomo globalmente inteso una posta in gioco nelle scommesse dell' agire» (Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino,

Einaudi, 1990). Ma il giudizio di indegnità, ancorché formalmente legittimo, si depotenzia molto se si tiene conto che 1'argomento della scommessa è ineffetti indirizzato a una categoria ben precisa di individui: gli indecisi tra il credere e il non credere. Come specificava un apposito Avis anteposto dagli editori di Port-Royal al frammento del pari, la proposta pascaliana non era infatti rivolta agli atei e ovviamente nemmeno ai credenti, bensì a quelle «persone che non essendo convinte delle prove

della religione e ancor meno delle ragioni degli atei, permanevano in uno stato di sospensione tra la fede e l'incredulità» (Les «Pensées»de Port-Royal, cap. VII). La scommessa non sarebbe allora altro che un tentativo di convincere un peculiare gruppo di intellettuali presenti nei salotti ai tempi di Pascal e noti col nome di libertins (“liberi pensatori”), per i quali sul Dio cristiano e sulle verità religiose non si poteva che sospendere il giudizio, che applicare l'È1to Xll (epoché) degli scettici pirroniani tanto cara a Montaigne (1533-1592), regolandosi poi nella vita in maniera pragmatica o utilitaristica. Siccome costoro apprezzavano in modo particolare il gioco d'azzardo, e qualcuno di loro (ad esempio M. le Chevalier de Méré - 1607-1684) aveva posto proprio a Pascal il quesito su come individuare le evenienze che ricorrono più di altre in una partita alla pari, l'idea di costringerli a cimentarsi con una scommessa obbligata e utilitaristica, con due soliesiti possibili (o il Dio cristiano esiste oppure non esiste) e ciascuno al50% di probabilità, poteva allora sembrare un buon escamotage perinsinuare dei dubbi nel loro scetticismo e smuoverli dall'indifferenza.Analizzando nel merito l'argumentdu pari emerge tuttavia un altronodo critico di matrice filosofica e relativo alla natura stessa delDio cristiano e della sua Rivelazione. In breve, la questione concernela possibilità dell' esistenza di qualcosa come la salvezza cristianae tutto ruota intorno alla domanda se il Dio di Abramo, di Isacco,

di Giacobbe e di Gesù Cristo sia classificabile tra gli esseri possibilisecondo ragione. Ma finché infatti una scommessa sia realmente tale enon un atto irrazionale o di pura follia la posta da guadagnare, purrimanendo velata, non può consistere in enti o eventi giudicati al momentodell' azzardo incerti sotto il profilo della possibilità di esistenza.Orbene, il Dio cristiano non è intuitivamente colto come possibile ecomunque non risulta sicuramente tale per coloro che nutrono deidubbi e che dovrebbero venire convertiti tramite il pari. Del resto anche per Pascal il modo col quale il Dio biblico diventa noto, e quindi per noi possibile, è quello delle cosiddette «prove storiche», vale adire «le meraviglie della Scrittura Santa. Gesù Cristo [e i suoi miracoli] in particolare. Gli Apostoli in particolare. Mosè e i profeti in particolare. Le profezie» (Pensées, fr. 482/289). È allora evidente come si entri qui in modo indiretto in una tautologia o circolo logico icirculusin probandoi; infatti, per cogliere la convenienza di scommettere sulla fede, e quindi decidere di credere in quanto rivelano le Sacre Scritture, occorre prima essere certi che il Dio cristiano sia possibile; ma a sua volta, per convincersi della possibilità del Dio cristiano e quindi della convenienza di puntare su di Lui occorre preventivamente credere nelle verità delle Sacre Scritture e quindi nello stesso Dio biblico. Insomma, il «decidere di credere» nel Dio delle Scritture presuppone il «credere per decidere», il possedere già la fede nello stesso Dio delle Scritture. Alcuni studiosi come Adriano Bausola (1930-2000) hanno tentato di affrancare la scommessa pascaliana dalla petitio principi sostenendo che in fondo l'incertezza sulla possibilità del Dio cristiano equivale all'incertezza sulla sua reale esistenza, poiché comunque nell'un caso e nell'altro si tratta di assumere un rischio analogo (cfr. Il «pari», in appendice a B. Pascal, Pensieri, opuscoli, lettere, Milano, Rusconi,1984). La tesi tuttavia non ci pare convincente. Rischiare su un ente di incerta possibilità è infatti differente dal rischiare su un essere aleatorio, ma sicuramente possibile, pertanto l'azzardo nei due casi non è equipollente. Ci spieghiamo meglio riadattando il celebre esempio kantiano dei cento talleri reali opposti ai cento talleri soltanto possibili (Critica della ragion pura, B 627/ A 599). In sintesi, un conto è imbarcarsi in una scommessa non essendo sicuri dell'esistenza effettiva dicento talleri come posta in palio e un altro conto è scommettere senza essere certi della possibilità che esista una moneta non fuori corso denominata "tallero". Come si comprende facilmente, la distanza tra le due situazioni è enorme: se risulta magari sconsigliabile, ma non assurdo; puntare qualcosa di minor valore nella prospettiva di guadagnare qualcosa di aleatorio e tuttavia possibile di maggior valore (i cento talleri reali), è per contro non solo sconsigliabile, ma sicuramente irrazionale rischiare qualsiasi bene concreto per tentare di vincere un premio totalmente incerto perfino nella sua possibilità di esistenza.

In conclusione, se si vogliono trovare dei punti di forza nel pari, vanno cercati non nell'argomento in sé, bensì nel fatto di aver rimarcato la necessità di scegliere o a favore o contro l'esistenza del Dio biblico, di aver posto in primo piano la questione del senso della vita umana e il valore della sua prospettiva trascendente, di aver sollevato per la prima volta il problema dell'indifferenza teistica e religiosa, ciò che oggi denominiamo "ateismo pratico" e che nel mondo attuale si sta rivelando un evento più rilevante dello stesso ateismo teorico e militante. La scommessa risulta inoltre un modo per rammentare come la fede religiosa in generale e la fede cristiana in particolare implichino necessariamente la componente del "rischio esistenziale". Alla filosofa Sofia Vanni Rovighi (1908-1990) il pari pascaliano richiamava infatti alla memoria «il kaòç Kivouvoç [rischio bello] del Fedone» di Platone (Storia della filosofia moderna, Brescia, La Scuola, 1976), secondo il quale «per chi crede (. ..), vale la pena di correre il rischio, giacché questo rischio è bello» (Fedone, 114d); dunque anche Pascal avrebbe potuto concludere che scommettere sul Dio cristiano è bello.

Roberto Giovanni Timossi

TIMOSSI-Roberto.jpgRoberto Giovanni Timossi è un filosofo e saggista impegnato nel confronto interdisciplinare tra filosofia, teologia, religione e scienza.

Fa parte del consiglio scientifico della Sisri (Scuola internazionale superiore per la ricerca interdisciplinare) e del comitato di gestione della Compagnia San Paolo di Torino.

Ha tra l'altro pubblicato: Prove logiche dell'esistenza di Dio. Storia critica dell'argomento antologico (2005), Imparare a ragionare. Un manuale di Logica (20 I I). Nel segno del nulla. Critica dell'ateismo moderno (2015). Perché crediamo in Dio (2017), Credere per scommessa. La sfida di Pascal tra matematica e fede (2018).

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