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Lorenzo Milani, il prete dell’I care

don-milani (2).jpgBarbiana. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sabato 27 maggio 2023, ha aperto a Barbiana le celebrazioni per il centenario della nascita di don Lorenzo Milani (1923-1967): nell’occasione, si celebra anche la XXII edizione della tradizionale Marcia della pace. Barbiana, una piccola frazione periferica, fino a metà Novecento senza neppure un edificio scolastico per la scuola media. Quando don Lorenzò destinò delle stanze  alla scuola, volle sul muro d’ingresso la frase inglese “I care”, ovvero Mi sta a cuore, m’interessa. Piccoli e grandi delle periferie
agricole  dovevano mentalizzare  quanto debba stare a cuore, l’ “impadronirsi” degli elementi essenziali della cultura e, in primo luogo, della parola. Lo si legge anche nel volume Lettere a una professoressa, pubblicato qualche settimana prima della morte di don Lorenzo: «La cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola».
Il noto libro è scritto da otto ragazzi, otto “Pierini”, che giorno dopo giorno entrano in possesso dello strumento-base di ogni comunicazione, la parola, un termine che, per don Lorenzo, evocava anche le Scritture: «Quando possederemo tutti la parola, gli arrivisti seguitino pure i loro studi. Vadano all’università, arraffino diplomi, facciano quattrini, assicurino gli specialisti che occorrono. Basta che non chiedano una fetta più grande di potere come han fatto finora. Povero Pierino, mi fai quasi compassione… Perché non vieni via? Lascia l’università, le cariche, i partiti. Mettiti subito a insegnare. La lingua solo e null’altro. Fai strada ai poveri senza farti strada».
Non mi sembrò una scuola. A Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola dal prete, come si legge nel libro. Dalla mattina presto fino al buio, estate e inverno, tutti insieme appassionatamente, consapevoli del fatto che anche la nuova scuola statale dell’obbligo (in vigore dal 1962) perdeva per strada molti studenti. Eppure, nessuno era negato per gli studi, come spesso invece sentenziavano i maestri delle scuole statali di fronte ai bambini e ai ragazzi del contado: «Barbiana, quando arrivai, non mi sembrò una scuola. Né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava. D’ogni libro c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica a accorgersi che uno era un po’ più grande e insegnava. Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione. Decisi fin dal primo giorno che avrei insegnato anch’io». Era un netto no alla scuola di classe, che espelle i poveri, che attua programmi sterili, vecchi e nozionistici, slegati dalla vita reale, non utili per essere cittadini consapevoli.
L’esperienza di Barbiana è comprensibilmente terminata con la morte del Priore, ma ha generato altre esperienze educative, che ne hanno reinventato il senso, affrontando le sfide attuali del sapere come diritto, sviluppo della coscienza critica personale e atto collettivo e politico rivolto alla più ampia società nella quale la scuola, ogni scuola, vive. Coltivare questa prospettiva di senso dell’educazione costituisce un’eredità impegnativa per la generazione post- (dopo la Zeta e dopo i Millennials). Reinventare il messaggio provocatorio di don Milani oggi, è possibile tornando a Barbiana per recuperare il senso profondo dell’educare e confrontarsi con una visione profetica, rivolta al futuro – come evidenziato dallo scrittore Eraldo Affinati – e con il mito educativo, già coltivato da Comenius, che tutti possano imparare tutto.
Essere preti, non funzionari del sacro. Don Milani era considerato un prete “scomodo”, troppo ingaggiato politicamente secondo una parte della gerarchia dell’epoca. Di questo suo peculiare ruolo egli era ben consapevole, pur proclamando e reclamando a gran voce il suo essere sacerdote della Chiesa universale e di quella particolare di Firenze: se la sua coscienza civile era fortissima e ben ragionata, altrettanto salda e radicata era quella religiosa, che egli aveva conquistato grazie alla “chiamata dall’alto”, giacché la famiglia e lui stesso non erano praticanti. La risposta di fede era una sua esclusiva conquista. Indossare l’abito talare era per lui un onore. Per questo farne un protagonista esclusivamente della vita politica e civile italiana degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, trascurandone o sottovalutandone la connotazione ministeriale, significherebbe precludersi la comprensione di quella parabola: don Milani, com’è giusto che sia, resterà nella storia della cultura italiana come uno dei pochi, grandi educatori del Novecento. Ma è stato, non lo si dimentichi, un educatore profondamente religioso, orgogliosamente (seppur spesso scomodamente) prete figlio della Chiesa.
Del resto, come riconosce papa Francesco, era un ministro dell’Assoluto, non un funzionario del sacro: «Essere prete come il modo in cui vivere l’Assoluto. Diceva sua madre Alice: “Mio figlio era in cerca dell’Assoluto. Lo ha trovato nella religione e nella vocazione sacerdotale”. Senza questa sete di Assoluto si può essere dei buoni funzionari del sacro, ma non si può essere preti, preti veri, capaci di diventare servitori di Cristo nei fratelli».
Insomma, don Lorenzo Milani merita d’essere ricordato, nelle analisi come nella vita d’ogni giorno, per quello che realmente è stato ed è: un testimone di Cristo per il nostro tempo, desideroso anche di realizzare un suo motto, che oggi è un libro: “Pace: adesso o mai più”.

✠ p. Vincenzo  Bertolone SdP
Arcivescovo emerito di Catanzaro Squillace

(fonte: Il Quotidiano del Sud del 28 maggio 2023)

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