L’emergenza rifiuti che entro pochi anni interesserà tutto il mondo, ha una genesi remota nel mutamento drastico delle abitudini e nella nascita e sfrenata crescita della civiltà dei consumi.
Per secoli abbiamo amato gli oggetti che affollavano le nostre case, le lenzuola del corredo della nonna con le cifre ricamate, che venivano utilizzate per generazioni, la poltrona in camera da letto sulla quale vedevamo ancora seduti i nostri genitori, quel quadretto con dei fiori esotici ricordo di una nostra cugina emigrata in sud America, quel vaso, da tempo scheggiato, regalo di nozze della zia Donatina. Non vi era suppellettile che non serbasse ricordi a volte lieti, spesso tristi.
Anche un’antica pentola eravamo certi che possedesse un’anima e non potevamo separarci da nessuno di essi, perché avremmo sofferto come per la perdita di una persona cara. Non bisognava essere dotati di poteri paragnostici per subire il fascino di un coltello o di una sciabola appartenuta a zio Amilcare ufficiale nel Dodecaneso, vibrare di emozione sfogliando le ingiallite lettere d’amore, vecchie di un secolo, che ripercorrevano l’amore contrastato tra zia Amina e Savino, austero colonnello dei bersaglieri.
Da bambino, ricordo ancora con malinconia, amavo passare delle ore in soffitta, un luogo buio e polveroso dove potevo dare la caccia ai ricordi della mia famiglia e respirare a pieni polmoni l’odore del tempo, che lì sembrava fermo per l’eternità. Divenuto adulto non ho perso questa antica abitudine e ritrovare un vecchio secchiello colorato con delle palette mi faceva rivivere le felici giornate trascorse in spiaggia a Lucrino o a Torregaveta, mentre giocavo con mio fratello Carlo sotto lo sguardo attento ed amorevole di mia madre.
Quegli oggetti apparentemente inutili mi hanno accompagnato negli anni dandomi sicurezza e tranquillità, perché in ognuno di essi riconoscevo emozioni e ricordi, fantasie e piacevolezze del passato, un passato che viveva nel mio animo, ancorato nella memoria.
Le biblioteche aumentavano generazione dopo generazione, perché i libri, soprattutto se sottolineati, erano trattati come reliquie, forse erano poco letti, ma rispettati, tenuti in ordine e suddivisi rispettando ancora la collocazione data dai vecchi proprietari: nonno Biagio, di rinomata erudizione, preside al liceo o zio Camillo, vescovo di grande cultura, collezionista di volumi di storia del Cristianesimo, ma anche di atlanti e cartoline illustrate. Quanto era lontana ed inimmaginabile l’era di internet e la vana pretesa di raccogliere tutta la cultura in un frammento di silicio.
Poi all’improvviso con il boom economico un mare di prodotti di ogni genere ha cominciato a sovrastarci e siamo stati presi da una febbre per l’acquisto facile, che rapidamente è divenuta un delirio. Abbiamo cominciato ad accumulare oltre misura per cui abbiamo cominciato a non affezionarci più a niente ed a cambiare continuamente abiti, scarpe, frigorifero, automobile, telefonino, a conservare nell’armadio 300 cravatte e 50 paia di scarpe. L’abitudine allo sperpero è divenuto un imperativo categorico continuamente rinforzato dai messaggi pubblicitari che ci martellano a tutte le ore. E con terrore pensiamo a quando miliardi di uomini, che oggi non posseggono niente, desidereranno almeno un decimo di ciò che noi possediamo.
Ci siamo illusi di una crescita economica tendenzialmente infinita, che ci avrebbe offerto sempre più prodotti e più benessere, mentre ora ci accorgiamo di un futoro incombente nel quale vi saranno sempre meno merci e meno occasioni di spendere e spandere.
Il consumismo sfrenato è stato il veleno sottile di un capitalismo senza regole, predone e devastatore, basato per anni su una catena infinita di speculazioni ed indebitamenti per foraggiare l’insensata abitudine allo sperpero. Poi la grande crisi che ci obbliga ad una rivoluzione nei comportamenti, fatta di pensieri forti e gesti semplici tali da rovesciare un sistema di valori effimeri nei quali per troppo tempo abbiamo creduto.
Dopo che l’avere aveva definitivamente trionfato sull’essere, concetti magistralmente spiegati da Fromm, dobbiamo tornare a riconoscere il valore delle cose, che devono tornare ad essere progettate per durare e per passare da padre in figlio.
Pochi si sono resi conto che ci avviamo velocemente verso la catastrofe, se non ritorneremo alla sobrietà della società agreste e non sapremo trasferirla nel cuore della civiltà industriale. Quanto erano saggi i nostri nonni che amavano una sola giacca, un solo paio di scarpe e che si tramandavano cappotti e sussidiari di padre in figlio.
Achille della Ragione