(foto: Marina Cvetaeva) “…So che Venere è un manufatto astuto,/ artigiano – conosco il mestiere:/ Dai più solenni silenzi fino/ a calpestare l’anima:/ tutta la divina scala, da:/Mio respiro! A – Non respirare!...” (Cvetaeva, 18 giugno 1922). A Mosca nel febbraio del 1921, in una serata di poetesse, Brjusov tra l’infreddolito e l’annoiato: “da che tempo è tempo la donna ha saputo cantare soltanto l’amore e la passione. ----- Provate a togliere alla donna la passione….” Meglio non provarci con Marina Cvetaeva. Le dilatazioni e contrazioni dell’elemento erotico-poetico segnano il ritmo dei suoi versi; privata dell’amore, la sua opera perde motivi e conflitti cruciali, i cardini stessi di una visione-versione del mondo fra le più tragiche del Novecento. Così Serena Vitale, che dopo Il bottone di Puskin, premio Viareggio per la saggistica nel 1995, ci regala queste Notti fiorentine della Cvetaeva per i tipi di Voland.
Si tratta di un gruppo di lettere che tra il giugno e il luglio del 1922, a Berlino, Marina Cvetaeva scrisse ad Abram Visnjak, proprietario e direttore della casa editrice Gelicon (Elicona). Fondata a mosca nel 1918, Elicona era rinata a Berlino nel settembre del 1921 dopo che Visnjak aveva abbandonato la Russia con la moglie e il figlioletto in seguito alla rivoluzione.
Berlino negli anni Venti era invasa da una eterogenea folla di russi: esuli antibolscevichi, cittadini sovietici con regolare visto di ritorno in URSS, persone ancora incerte che attendevano di vedere come sarebbero andate a finire le cose in patria. Nella capitale tedesca vissero e soggiornarono per periodi più o meno lunghi, Belyj e la Berberova, Berjaev e Nabokov, Sklovskij, Erenburg e Remizov. La Casa delle arti, fondata sul modello della Casa dei letterati di Pietrogrado, organizzava serate poetiche, mostre, concerti, lezioni. Grazie al corso favorevole del marco, l’editoria in lingua russa attraversava una stagione fortunata, spesso gemellata con Mosca e Pietrogrado. (A chi abbia studiato la storia di questi due paesi non desta meraviglia l’intesa cordiale tra Putin e la Merkel. Il corsivo è mio)
Il 15 maggio del 1922 Marina Cvetaeva sbarcò alla stazione di Charlottenburg insieme ad Alja,la figlia di dieci anni. “Esistono due tipi di partenze: partire da e partire per. Preferisco il primo. E’ un gesto nobile: la donna, come io la amo. Non partenza: volo…Tutto fa crescere l’anima – soprattutto le perdite..” Marina volava via dalla Russia, da anni di fame, privazioni, ma pieni di straordinario fervore creativo. Ma andava anche verso qualcosa: qualcuno. Il marito, Sergej Efron era vivo e, come altri reduci dell’Armata Bianca, dopo la disfatta e la fuga attraverso la Turchia aveva trovato asilo in Boemia. Per Marina e Sergey l’appuntamento era fissato a Berlino, ad accoglierli Erenburg, che mette a loro disposizione la stanza in cui abitava con la moglie.
A Berlino - profumata di cioccolata e buon tabacco, confortevole, sazia, soddisfatta, “non realizzata perché non amata, non amata perché prussiana dopo la Russia, borghese dopo la Mosca rivoluzionaria”- anche Marina sedeva ai tavoli della Pragerdiele, il locale frequentato dalla intelligencija russa, dietro una tazza di caffè; il fumo di un’eterna sigaretta nascondeva ai più i due sguardi degli occhi di Marina: uno condiscendente, appena ironico, che restava in superficie, l’altro, riservato a pochi, che all’interlocutore scrutava l’anima.
Tramite Erenburg fece la conoscenza di “Gelikon” come veniva chiamato da tutti gli scrittori russi Abram Visnjak, all’indomani dell’arrivo a Berlino. Il ventisettenne editore aveva in grande considerazione l’opera della Cvetaeva, e all’epoca era tormentato da una grave crisi nei rapporti con la moglie, infatuata di un altro uomo (Erenburg?); quando erano soli raccontava alla scrittrice la propria amarezza, le chiedeva consigli, aiuto. Tanto bastò per incendiare mente e cuore della donna che già allora avrebbe potuto scrivere:”E finalmente ho trovato / chi mi è necessario:/ qualcuno ha bisogno di me / come dell’aria…”. Gli spaziosi e deserti viali della Berlino notturna con le sue “panchine vagabonde”, la redazione di Elicona, furono testimoni della relazione fra la poetessa e il suo editore, breve storia destinata a concludersi per la Cvetaeva, con la prima, drammatica scoperta dei limiti dell’amore (e dell’amato). Gelikon è sempre lacerato in due parti: la vita quotidiana e l’anima. In realtà può anche non lacerarsi tanto, anima ne ha poca, come annota nel suo diario la piccola Alja, lui ha bisogno di pace, di riposo, di sonno, di comodità, e sono proprio queste che l’anima non dà. Con Gelikon Marina parla come un Titano, per lui è incomprensibile come il Polo nord per un orientale e altrettanto seducente. Dalle sue parole c’è uno spiraglio di luce tra tutte le sue beghe quotidiane. Si protende verso Marina come verso il sole, e invece il sole è lontano, perché tutto l’essere di Marina è controllo a denti stretti, mentre lui è morbido, cedevole. Intanto la vita berlinese di Marina si infittiva di avvenimenti: nuovi versi, nuovi progetti editoriali, la rinnovata amicizia con lo “spirito incatenato” di Andrej Belyj, la prima lettera di Boris Pasternak:”Cara Marina Ivanovna! Proprio adesso, con il tremito nella voce, ho cominciato a leggere a mio fratello la vostra poesia Lo so, morirò al crepuscolo, in quale dei due….e, come qualcosa di estraneo, sono stato interrotto da un’ondata di singhiozzi che montava alla gola e finalmente è esplosa, e quando da questa poesia ho spostato i miei tentativi di lettura a “Ti racconterò del sublime inganno” esattamente allo stesso modo sono stato respinto da Voi….
Dopo essersi mancati nello spazio e nel tempo reali, quando abitavano a poche centinaia di metri di distanza, si ritrovavano nelle lettere e nella poesia, come nel più saldo e vivo degli abbracci.
Ho davanti a me Mia sorella la vita…(Pasternak) Sono finita sotto questo libro come sotto un acquazzone…” L’acquazzone di luce riversatosi sulla Cvetaeva relegava definitivamente nell’ombra Gelikon. Nella seconda metà di luglio Marina decise di trasferirsi in Cecoslovacchia dove il governo Masaryk metteva a disposizione borse di studio per gli esuli russi e il marito Sergej Efron si sarebbe iscritto all’università e dove c’era la possibilità che anche la moglie ricevesse un sussidio economico.
Inedite fino al 1983, quando videro la luce per la prima volta il Italia, le Notti fiorentine hanno contribuito ad alimentare la folta leggenda degli amori della Cvetaeva. Leggenda nutrita di devozione, del rispetto per la sua tragica vicenda umana, ma anche dalle punte velenose della maldicenza, dell’intolleranza (Nei suoi rapporti con gli uomini c’era qualcosa di terribile, semplicemente patologico…si gettava, in pratica su di loro!”; “Nei suoi rapporti con gli uomini c’era qualcosa di antigienico”; “Lei amava il marito e amava solo lui, ma lo tradiva in un modo terribile, gli portava gli amanti in casa..). In vita, Marina non ebbe mai bisogno di difensori: viveva già fuori della vita, si lasciava spesso alle spalle i piccoli, i normali, i meschini, guardando solo al cielo “dove i giudici saranno giudicati”. Ha diritto di parola solo chi la conosceva bene come nessun altro e come nessun altro la amò: il marito. Sergej Efron scrisse a Maksimilian Volosin nel gennaio del 1924 dopo che si era concluso il travolgente amore tra la Cvetaeva e Konstantin Rodevic:”Mio caro Maks, già da molto ho ricevuto la tua affettuosa, splendida lettera, ma per tutto questo tempo non sono stato in grado di risponderti….la mia debolezza, la completa impotenza e cecità di Marina, la pena che provo per lei, la consapevolezza che sia finita in un vicolo cieco, la mia incapacità di aiutarla in modo fermo e deciso, l’impossibilità di trovare una via d’uscita, tutto questo ha portato ad un punto morto.. Marina è una creatura di passioni…. Gettarsi a capofitto nell’uragano, è diventato per lei una necessità, aria della sua vita. Quasi sempre, tutto è costruito sull’autoinganno. Una persona viene inventata, e comincia l’uragano. Se la nullità, la mediocrità della causa scatenante vengono scoperte presto, Marina si abbandona a un’altrettanto uraganesca disperazione. E’ una condizione, la sua, che si allevia solo con la comparsa di un nuovo amore……..oggi disperazione, domani entusiasmo, amore, nuovo gettarsi anima e corpo, e il giorno dopo, di nuovo disperazione. Tutto viene trascritto in un libro. …..Come una grandissima stufa che, per funzionare, ha bisogno di legna, legna, legna. La cenere inutile viene gettata via e la qualità della legna non è importante………Non c’è neanche bisogno di aggiungere che già da tempo, ormai, io non servo più per accendere la stufa…..
Impietosa luce sulla meccanica dei sentimenti di Marina: in una smaniosa ricerca di assoluto, le persone venivano poste su un altissimo piedistallo, trasportate nell’aria incandescente e rarefatta della venerazione; dopo l’iniziale ebbrezza, i primi momenti di compiaciuto orgoglio, l’idolo stentava a respirare, soffocava, cercava con gli occhi più riposanti e fresche pianure. E non appena Marina coglieva quegli sguardi impauriti, abbatteva statua e piedistallo con frenesia distruttiva. Pagava sempre con piccole morti il suo peccato di idolatria; la delusione era pari alla disperazione, un dolore lancinante seguiva la fuga, l’ennesima ritirata dell’oggetto d’amore, intimorito da imperiose preghiere, inflessibili carezze. Intervenivano poi il silenzio (tacevano i versi) e la vendetta: indifferenza, oblio.
Benché dalla fine del 1925 vivessero entrambi a Parigi, Marina Cvetaeva incontrò di nuovo Gelikon soltanto una o due volte, per caso, affettando uno sprezzante gelo nei suoi confronti. E non era più in Francia quando, nel giugno del 1941, l’ebreo Visjak venne arrestato dai nazisti e deportato nel lager di Gress-Rosen, dove avrebbe trovato la morte.
“Tutta la nostra vita è un unico accondiscendere (dell’uomo, o della divinità che è in noi) verso i piccoli: Ma come, talvolta, questi piccoli danno la nausea e quanta voglia si ha di quei grandi. Non ingoiare sempre tutto. Ergersi in piena statura – senza il timore di spaventarli, di ucciderli”. E invece esagerata, esagerata, cioè – in tutta la sua statura” Marina si presenta a Visnjak fin dalla prima lettera. Alle parole di tenerezza, ai gesti di femminile abbandono, alterna toni didattici, esigenti, inquisitori. Alla superficialità e leggerezza che intuisce in lui, oppone il modello del rischio esistenziale. La legge del dolore innanzitutto, perché:”l’elemento doloroso nell’amore è personale, quello giocoso appartiene a tutti. Il dolore si chiama tu, il piacere è senza nome. E’ per questo che si può star bene con tutti, mentre il dolore lo vogliamo da uno solo…”
Ammalato Gelikon raggiunse la famiglia al mare e l’esangue schiera che avrebbe affollato i ricordi di Marina:”…Per tutta la vita, di seguito, ho inondato d’amore le persone sbagliate, quelle che nel mio mondo erano le più piccole, deboli, impari. … Pari a me, per forza, ho incontrato solo Rilke e Pasternak…” questa creatura imperiosa, smisurata, altera, conscia della sua grandezza continuò a sbagliare con diabolica perseveranza.”
Peccherò – come ora pecco, come ho peccato. Con passione! / Con i sensi che dio mi ha dato – tutti e cinque!” così la giovanissima Marina aveva sfidato i filistei, gli abitanti del mondo della misura, i non poeti. Ma vi fu un momento in cui la sua ansia di altro e altrove, parvero placarsi di fronte ad un severo richiamo. Il dovere, l’imperativo etico della poesia. Si arrestarono fughe e scorribande per gli spazi dell’immaginazione, come farfalla, anima di cigno si presentò all’essere amato:”Tieni, mio dolcissimo, i brandelli/ che sono stati carne tenera./ L’ho stracciata, spiegazzata, / sono rimaste soltanto due ali…” con quelle ali Marina si sarebbe librata – liberata – nell’etere. La sua poesia matura, chiosa Serena Vitale, sarebbe stata ancora viaggio e invitation au voyage: al volo, a un infinito, arduo itinerario in ascesa.
Giuseppe Costantino