Se siete ricchi sfondati e volete assicurarvi uno splendido dipinto di Artemisia Gentileschi per adornare il vostro salotto, dovete subito prenotare l’areo per Vienna, dove il 23 ottobre vi sarà una importante vendita all’asta della Dorotheum, il cui gioiello sarà costituito da una sensuale Lucrezia, capolavoro della nota pittrice, che fa anche da copertina (fig. 1) del lussuoso catalogo degli oltre 300 dipinti posti all’incanto.
Se viceversa siete solo sfondati, ma appassionati del bello e dell’arte, potrete deliziarvi ammirando le foto dei quadri del Seicento napoletano, acquistabili per cifre più ragionevoli, illustrati dal massimo esperto di quel periodo, cioè dal sottoscritto.
L’opera over the top di cui parlavamo raffigura il suicidio di Lucrezia e proviene da una collezione privata italiana. La quotazione è di 500.000-700.000 euro. Ma secondo Mark MacDonnell, l’esperto di Dorotheum, è una stima prudente che «non riflette il suo valore commerciale che ci aspettiamo essere molto più alto». Secondo il nostro parere, in un momento di crisi economica, come quello che attraversiamo, la stima del suo valore più che fantastica è fantasiosa.
L’attribuzione, incerta fino a qualche anno fa, è arrivata da Nicola Spinosa nel 2015. La data dell’esecuzione secondo alcuni risale al 1630, secondo altri studiosi al 1640-45 circa. Contrariamente al modus operandi della pittrice, quello di Lucrezia non è un autoritratto. Artemisia dipinge spesso donne eroiche della mitologia antica e cristiana. Oggetto di questo lavoro, è la nobildonna romana, divenuta un simbolo popolare della sfida femminile contro la tirannia. L’eroina, anche se non ha i suoi lineamenti, riflette comunque la stessa vita della pittrice: come Lucrezia anche Artemisia aveva subito abusi da parte di un uomo.
Volendo rimanere sulla stessa iconografia passiamo ora a contemplare un altro seno accattivante di un’altra Lucrezia, attribuita nella scheda a Diana De Rosa, più nota come Annella di Massimo, una pittrice, il cui catalogo è ancora da definire con attendibilità, per cui ogni raffronto con altre sue opere è quanto mai arduo. L’unica cosa che oramai sappiamo con certezza sulla pittrice, sorella di Pacecco e moglie di Agostino Beltrano è che la bufala partorita dalla fertile fantasia del De Dominici dell’uxoricidio dovuto ad una soffiata di una cameriera pettegola che aveva riferito al marito di aver visto Massimo Stanzione, maestro di Annella, mettere in mano all’allieva un pennello particolare è completamente falsa.
Pur se citata dalle fonti e resa famosa dall’aneddoto sulla sua morte violenta, «Annella» è a tutt’oggi «una pittrice senza opere» che possano esserle attribuite con certezza. Sicuri sono soltanto i dati anagrafici, 1602-1643, resi noti dal Prota Giurleo.
Il De Dominici ciarlava che Annella, allieva di Massimo Stanzione, fosse la pupilla del maestro, il quale si recava spesso da lei, anche in assenza del marito per controllare i suoi lavori e per elogiarla. Una serva della pittrice, come abbiamo detto, che più volte era stata redarguita dalla padrona per la sua impudicizia, incollerita da ciò, avrebbe riferito, ingigantendone i dettagli, della benevolenza dimostrata dal «Cavaliere» verso la discepola, scatenando la gelosia di Agostino, il marito, il quale accecato dall’ira, sguainata la spada, spietatamente le avrebbe trafitto il seno. A seguito di questo episodio il Beltrano, pentito dell’enormità del suo gesto ed inseguito dall’ira dei parenti di Annella, si rifugiò prima a Venezia e poi in Francia dove visse molti anni prima di ritornare a Napoli.
Oggi la critica, confortata da dati inoppugnabili, tra cui la documentazione che morì nel suo letto dopo aver partorito numerosi figli ed aver ricevuto l’estrema unzione, non crede più a tale favoletta, anche se il nomignolo di «Annella di Massimo» che dal Croce al Prota Giurleo, dal Causa a Ferdinando Bologna unanimemente si credeva fosse stato inventato in pieno Settecento dal De Dominici, è viceversa dell’«epoca», essendo stato rinvenuto in alcuni antichi inventari: in quello di Giuseppe Carafa dei duchi di Maddaloni nel 1648 ed in quello del principe Capece Zurlo del 1715. In entrambi vengono riferiti dipinti assegnati alla mano di «Annella di Massimo».
Passiamo ora ad un languido Martirio di S. Orsola, di una collezione privata napoletana, eseguito da Giavan Bernardo Azzolino. Azzolino chi era costui? Un pittore più famoso per essere stato il genero del grande Ribera, del quale sposò per interesse una delle figlie, piuttosto che l’onesto artista attivo per oltre 50 anni nel difficile mercato napoletano, suggestionato dalla nuova moda naturalista importata dal Caravaggio, al quale si deve l’idea dell’iconografia rappresentata.
Il dipinto in esame, noto da tempo agli studiosi, grazie a Leone de Castris, va collocato cronologicamente al secondo decennio del Seicento, un momento in cui Azzolino non solo meditò sulle novità introdotte dalla pittura del Caravaggio, ma guardò anche ai primi interpreti napoletani del suo messaggio, come Carlo Sellitto e Battistello Caracciolo, che tentavano precoci esperienze sul piano del luminismo e del naturalismo.
Come il Caravaggio nel suo celebre dipinto conservato a Napoli a Palazzo Zevallos, Azzolino costruisce sinteticamente la scena, facendo emergere dall’ombra il corpo nudo della santa, che diventa così il perno visivo su si impostano gli altri personaggi, rappresentando l’evento in maniera essenziale ed incisiva, senza ricorrere a inutili particolari descrittivi. La santa sembra non soffrire per il dolore provocato dalle frecce, che le trafiggono le carni ed appare immersa in una beata rassegnazione al martirio.
Rimanendo sempre nel campo del nudo femminile mostriamo ora una seducente Betsabea al bagno di Giacomo Farelli, una figura di rilievo nel panorama artistico napoletano della seconda metà del secolo, (Roma o Napoli 1629 - Napoli 1706) del quale un documento recentemente scoperto dal Delfino ci corregge la data, 1629 e non 1624, e forse anche il luogo di nascita.
Concettualmente vicino alla cultura del Di Maria nella fase iniziale della sua carriera, quando persegue l’identico indirizzo intellettualistico dell’Accademia di Notomia fondata dallo stesso Di Maria con Andrea Vaccaro, si avvicina gradualmente alla nuova maniera con l’usare tinte dolci e piene di morbidezza» (De Dominici). Giungerà poi nella piena maturità ad una sorta di neo michelangiolismo che non trova corrispettivo culturale in ambito napoletano e deriva da lunghe e proficue meditazioni romane a cospetto della Sistina.
Finalmente una santa che non si mostra “nature” all’osservatore, intendiamo parlare della S. Caterina di Francesco Guarino, proveniente da una celebre raccolta napoletana. L’artista nei quadri raffiguranti sante recepisce con sempre maggiore evidenza la maniera stanzionesca e le languide dolcezze pittoriche del miglior Pacecco De Rosa, come pure è permeato dagli impreziosimenti vandychiani e neoveneti, al pari di tutto l’ambiente artistico napoletano.
Nello stesso tempo sceglie sempre più spesso il piccolo formato, che era stato portato al successo dal Cavallino e dialoga alla pari con il Vouet, con il Domenichino e persino con Francesco Cozza.
Dalle tela in esame promana una dolcezza languida, serena, rassicurante, che ci fa comprendere con quanta calma queste sante, avvolte nelle sete rare delle loro vesti acconciatissime, abbiano affrontato il martirio, sicure della bontà delle loro decisioni, placando e spegnendo ogni sentimento e sensazione negativa quali il dolore, la sofferenza, lo sdegno ed esaltando la calma serafica, la serenità dell’animo, la certezza di una scelta adamantina. La pittura in queste immagini dolcissime e sdolcinate cede il passo alla poesia, che si fa canto soave anche nella rappresentazione delle «flessuose signorine napoletane del suo tempo e per le loro fogge lussuose, fresche di seriche gale o pingui di velluti, che la luce coglie furtiva come fiori dalla notte»
Passiamo ora dalla natura viva alla natura morta, anche se sarebbe più preciso definirla natura in posa, proponendo all’attenzione del lettore tre dipinti(fig. 7 – 8 – 9) di Abraham Brueghel dal cromatismo vivace e luminoso.
Abraham Brueghel (Anversa 1631 - Napoli 1697), nel 1676 si trasferisce a Napoli, dove vivrà fino alla morte avvenuta nel 1697. Ci troviamo perciò davanti ad un pittore italiano a tutti gli effetti e per il 50% napoletano, alla pari del Ribera o di Mattia Preti, nati altrove, ma che all’ombra del Vesuvio hanno svolto la parte più significativa della loro attività. Egli è intriso culturalmente di spirito nordico, possiede un’assoluta padronanza dei modi dell’anziano Frans Snyders ed una buona conoscenza delle novità apportate da Jan Fyt, come i fondali boscosi e le colonne poste su alti stilobati, ma giunto a Roma è ansioso di recepire motivi classici della pittura italiana ed inserisce spesso nelle sue ricche composizioni elementi di carattere archeologico, come vasi scolpiti, bassorilievi e frammenti antichi.
Sotto il profilo temporale è noto che l’artista nordico trasferitosi definitivamente a Napoli vi vivrà fino alla morte concludendo la sua carriera nel 1697 e collaborando con i maggiori pittori di figura in circolazione da Giordano a Solimena.
Anzi le tele eseguite all’ombra del Vesuvio spesso vengono riconosciute proprio dal collaboratore di figura che sceglieva sempre tra i più bravi; egli volse ad amplificazioni barocche il repertorio dei motivi di natura morta di fiori e di frutta, arricchendoli di pittoreschi fondali di giardino, animali rari e primi piani di figure, spesso facendosi coadiuvare anche da un paesaggista, in maniera da realizzare composizioni ridondanti e coloratissime.
Una caratteristica patognomonica che ci permette con ragionevole certezza di assegnare a Brueghel un quadro è il modo in cui dipingeva i cocomeri e che gli valse meritatamente il soprannome di "fracassoso", coniato dal De Dominici, il quale nel descriverlo così proseguiva: «preso un cocomero ben grosso lo lasciava cadere a terra, e come rimaneva rotto in quell’accidente lo dipingeva». Un modo elegante e discorsivo per esaltare quello stile brioso e leggero, per quanto elegante e spontaneo, che cozzava con quella solida lucidità ottica degli epigoni della scuola napoletana suoi contemporanei, da Giovan Battista Ruoppolo a Giuseppe Recco. Infatti egli incaricava un suo assistente di prendere un melone maturo di cospicue dimensioni e di gettarlo a terra con violenza spaccandolo in due parti diseguali che definire barocche è un eufemismo. Se la rottura non era di suo gradimento si passava ad un secondo cocomero ed eventualmente ad un terzo, tanto all'epoca costavano poco niente, fino a quando le profonde spaccature non assumevano una linea sinuosa e sporgente. L'occhio dell'osservatore non rimane insensibile a queste curve iperglicemiche e dopo poco, inevitabile, viene l'acquolina in bocca ed il desiderio irrefrenabile di addentare quella polpa dolce e generosa.
E concludiamo in bellezza la nostra carrellata con un paesaggio(fig. 10) di Salvator Rosa, una specialità che il pittore predilesse quando, tornato a Roma nel 1649 è ambito da facoltosi committenti ed è richiesto dalle maggiori corti europee principalmente per i suoi paesaggi, spesso animati da vivaci figurine ed imitati fino alla fine del Settecento. Lo scenario è spesso quello del sud con le sue rocce ed i suoi panorami aspri e severi, resi con una certa dose di libertà espressiva e di fantasia, che non permette mai di identificare con precisione i luoghi rappresentati. Il fogliame è reso con grande accuratezza e spesso sono presenti le caratteristiche torri di avvistamento presenti in tutte le nostre coste flagellate dalle incursioni dei saraceni. Le figure dei contadini sono riprese nell’atto di animare la conversazione con una gestualità tipica delle popolazioni meridionali. La scelta dei colori cupi ed ombrosi è una costante della paesaggistica rosiana che tende a rappresentare le sue scene al tramonto, per rendere l’atmosfera più raccolta e più intimo il discorrere dei personaggi.
Achille Della Ragione