Io ed Alitalia nascemmo insieme a Roma. Battezzati come Maurizio (a Santa Maria Maggiore) e come Alitalia-Aerolinee Internazionali Italiane.
Quando avevo una decina d’anni m’imbarcai su di un quadrimotore Douglas DC-4 (vedi immagine copertina) a Ciampino, con mio padre, diretti a Parigi.
Allora, per incrementare gli scarsi viaggiatori, si era molto coccolati dalla compagnia, tramite le Hostess, le quali, indossando una divisa disegnata dalle Sorelle Fontana, servivano continuamente dolci, leccornie e bevande.
Ecco quindi che io, l’unico coraggioso bambino a bordo, venni accompagnato nella cabina di pilotaggio nel momento in cui l’aereo sorvolava l’Isola d’Elba.
Iniziava la storia italiana del dopoguerra.
Io frequentavo, e lo feci fino alla maturità, il Collegio San Giuseppe Istituto De Merode a Piazza di Spagna. Allora solo maschile. Le femminucce stavano al Mater Dei, all’inizio della salita San Sebastianello, la quale, per evitare peccaminose mescolanze, differenziava gli orari di entrata ed uscita dalle nostre.
Non avevano ancora aperto la stazione della Metropolitana ed il centro era un quartiere di residenti. Gucci era un negozio di pelletteria e Bulgari una bella gioielleria. Ed io mangiavo la pizza rossa, comprata dal fornaio di via del Babuino, seduto sulla scalinata di Trinità dei Monti, mentre Giorgio De Chirico, con la televisione sempre accesa, ma muta, dipingeva le sue opere.
Quando passavo per via Margutta vedevo, esposti in un negozietto, dei quadri di Picasso, senza cornice, impilati o appesi uno sull’altro: poco apprezzati.
Mentre crescevo e studiavo (il francese me lo insegnava, venendo a casa mia, la madre di Marco Pannella), mi preparavo ad iscrivermi e laurearmi all’Università degli Studi La Sapienza in Architettura.
Non voglio raccontare tutta la mia storia, ma evidenziare come invece quella dell’Alitalia sia stata, e sia, parametro di quella italiana.
In settant’anni un’azienda che aveva tutte le potenzialità per diventare un marchio mondiale d’eccellenza, è stata utilizzata per creare un disastroso fallimento costato, ad oggi, ventimila miliardi delle vecchie lire, compresi i miliardari stipendi dei manager che l’hanno portata alla completa disfatta.
Parametro di altre distruzioni: politiche, industriali, culturali ed economiche. Anch’esse, avvenute, pur foraggiate da una crescita d’imposte spropositata ed inutile, visti i risultati.
E, assurdo nell’assurdo, questo rapace prelievo fiscale è stato accompagnato dalla crescita, ancora attuale, di un debito pubblico di dimensioni incolmabili.
Una nazione che aveva la storia, la cultura e l’opportunità per continuare ad essere un riferimento mondiale di civiltà, di ricerca e di arte, è stata trascinata nel fango dell’irrisione e di una diffusa povertà.
A giorni si andrà ad elezioni, e molti degli inetti artefici della continuità di questa catastrofe nazionale, continuano a chiedere una fiducia sul loro operato.
E, ancora più paradossale, non è escluso che l’ottengano.
Maurizio Silenzi Viselli