Su segnalazione dell'amico Ciccio Doni, proponiamo la lettura di una poesia di uno dei più importanti poeti viventi italiani, Ennio Cavalli (NELLA FOTO), su quel che è divenuta la nostra Italia. Una disamina in versi di come il nostro paese sia giunto dagli affanni del dopoguerra e della rinascita allo smantellamento odierno di tutto ciò che rappresentava l'unicità di una nazione con la sua cultura, la voglia di fare, l'orgoglio di appartenenza. Cavalli soffre la perdita d'identità, la disconoscenza dei fatti storici, la debolezza della scuola, il menfreghismo della politica, l'appiattimento generale delle agenzie preposte all'informazione come televisione e stampa dove il carrierismo e la ditocrazia la fanno da padroni su etica, correttezza, onestà. Versi da leggere e su cui meditare.
Gli ultimi libri di Ennio Cavalli: Poesie incivili e L'amore prima dell'aggettivo.
CINEMA ITALIA
Fragile Italia... O sei al plurale?
Quante ce n'è di te,
di Italianette al netto delle tare?
Se il Meridione è sempre una questione,
il Nord sfocia a Berlino.
Paese amato, disgraziato,
mica voglio lasciarti come ti ho trovato.
O addirittura peggio.
Da bambino ti sapevo in cammino,
il dopoguerra bella battaglia,
tutto da rifare, forze da riunire,
ponti, case, ciminiere
strade e figli come noi,
figli del sole, non della Lupa,
primo sale da affinare.
Qualcuno o non so cosa,
famiglia, maestro, chiesa
ci offriva il caffè forte
di un'idea, di un entusiasmo.
Faceva effetto pensare di investire
su se stessi e sul resto,
senza l'andazzo
che manda avanti i soliti
e toglie a tutti.
Eri l'Italia turrita di lettere e cartoline,
in testa un vanto di mura,
quel tanto di valore che incorona
Nazione e francobolli.
Cosa si è interrotto o sbriciolato,
quale gomma o maleficio hanno cancellato
un fiume, un merlo, un perno dall'ordito,
sciolta la colla dell'Unità?
Forse Bismark diceva il vero:
Solferino, Sadowa, Sedan,
le tre S che hanno fatto l'Italia,
sono vittorie o sconfitte di altri.
Noi ai margini, chini sul dopo,
rosicchiatori di confini,
denti da topo.
Però chi ci credeva si ruppe qualche osso,
morì in un fosso, si trascinò al di là,
dalla Sicilia in su.
L'Indipendenza ce la siamo conquistata.
Ma la parola sbandierata, mai accasata,
Risorgimento, è piuma al vento.
Da cosa e quando
saremmo risorti, per ridurci così?
Risorgimento Rinascimento
Rivoluzione Ricostruzione
Resistenza Ribellione,
altrettante fermate di corriera,
ticket per ripartire.
Invece eccoci al palo a mugugnare.
Patria infelice, il nuovo servaggio,
i mercenari con insegne e colori
sono bolle di furbizia e dissapori
siamo noi che ci chiamiamo fuori.
La corruzione un sabba, un baccanale
lampada votiva e funeraria,
lavaggio, compostaggio
di soldi e desideri,
oggi più di ieri.
Ognuno ha un prezzo, fissato
con disprezzo.
Tutti, fino al Papa
siamo nel libro mastro del disguido.
Ci basta assentire.
E dovremmo gioire?
Giovane Italia e se ti rifondassimo
come carboneria piena di guizzi,
statuto interiore, non ingannevole?
Non saremo mai un Paese tutto d'un pezzo,
ma solo un compromesso.
Però adesso, per far bene,
i giovani, i vecchi,
chi vuol dire qualcosa
adotti una parola, una sola,
spogliata e abbandonata sul sofà: onestà.
Difendiamola in quartieri, mercati, talk-show
asili, tribunali e vademecum,
nel labirinto delle molestie,
negli studi di fattibilità.
Onestà viene da onore,
i veri uomini d'onore sono gli onesti
che non mangiano sulla testa degli altri,
piuttosto mangiano pane e coltello,
cioè soltanto pane, almeno quello.
È pane per i denti dei ladroni
l'indifferenza generale.
La nostra rassegnazione
è il loro conto in banca.
I soldi, l'arma che puntano alla tempia
di chi vogliono.
Penso a un botto di pene aggiuntive.
Cara mafia, da oggi non puoi usare
la bella lingua siciliana.
Quella resta al popolo, quella è troppo sana
per finire macchiata, incaprettata, sparata in bocca
da un gergo delinquente.
Ai camorristi pure, vietato il napoletano,
vietati il vino di Gragnano, proverbi e canzoni,
la vista del Vesuvio.
Che se la intendano a gesti, attraverso i prestanomi,
come già fanno nelle stanze dei bottoni.
Italia, mia litania
e anche tu, amatissima lingua,
quanta lingua in bocca fai
con la volgarità dell'ovvietà?
Perché non molli uno scappellotto
ai mocciosi petalosi,
a chi straparla e versa
nell'imbuto dello Zanichelli
i propri cazzi acidi?
Quanti commissari di noir
al capezzale della letteratura,
prima di chiudere il caso
e ritrovare l'ispirazione,
estrema unzione,
aria di pineta
tra le dita?
Ahi, mezza Italia che più non sei,
chi ti vede mezzo vuota
chi ti vede mezzo piena
del tuo vuoto.
E le costruzioni abusive,
malate in partenza
come intestini di tartarughe
digeriti dalla plastica.
I musei che dovremmo
sapere a memoria come storia,
sempre mezzo chiusi o fin troppo musei.
E voi della tivù, basta col trash,
vogliamo programmi coi fiocchi,
internazionali, anche i più normali.
Provate e riprovate senza affanno,
ogni minuto un Concerto di Capodanno.
Italia, Italia, sei proprio un Cinema,
Cinema Italia o Supercinema
Moderno di facciata.
Vediamo e rivediamo senza interruzioni
Deserto rosso, Le fatiche di Ercole, Maccheroni.
Pellicole riavvolte, sassi di Pollicino
le cavalcate che sembravano destino.
Ragazzi, vi tocca imparare
quello che non sapete.
Ho visto nelle scuole che non sapete
chi è Fellini,
cos'era il piombo degli anni di piombo
e che per Niki Lauda una Ferrari
si guida col culo e col corpo,
non solo con l'elettronica,
parole sue, stessa passione
con cui voi cavalcate i motorini.
Ma i genitori, prima ancora dei prof,
di cosa parlano ai figli
nei fast food, nei mall,
nei weekend? Di niente?
Che siano i figli, allora, a chiedere
a padre, madre, nonni e zii
com'era la vita,
che ne è stato di loro.
Povera Italia, stesso nome
della dirimpettaia dei nonni a Forlì,
così chiamata, povera Italia
da morta, ma anche da viva
per un sospetto malaffare
che in tempo di razionamento, tuttavia,
portava pagnotte gratis al vicinato,
pane donato mai rifiutato,
però lavato prima di essere mangiato.
Se ancora oggi qualcuno vorrebbe
sciacquarsi la bocca, prima di dire
"Patria mia" o "Popolo che non sei altro",
la colpa è dei neri, dei loro ruggiti in vestaglia,
la colpa è dei rossi che hanno reso massa il popolo,
manipolando l'esito.
Massa e ruggiti, affari loro,
noi siamo interi.
Oggi che è il populismo a dare il resto
e le distanze si camuffano da somiglianze,
chiamerei il Popolo lievito madre
e Patria gli spicchi d'arancia nel piatto.
Se divisi siam canaglia,
stretti in fascio siam potenti;
sono il nerbo delle genti
quei che han braccio e quei che han cor...
Turati, Inno dei Lavoratori
e a onor di rima, largo
ai Penati di Roma antica,
protettori di pensieri col guizzo:
patria e focolare.
Come se il caldo, il centro della sosta,
là dove arde il fuoco di famiglia,
fosse quasi un altare
un messaggio in bottiglia
un bene da moltiplicare
e la Patria avesse, ogni quattro mura,
una nicchia dove sostare
e ogni casa fosse una piccola Patria,
scoppiettio di voci.
Italia mia, benché
o nonostante ciò
anche l'immaginazione ha un limite
anche l'immaginazione ha fegato
sono ferite le cicatrici
e i ricordi senza mittente, rovine di Pompei.
Italia di periferia
che tutte le feste porti via,
togliti l'elmo di Scipio
fatti uno shampoo
levati dalla testa bigodini e campanili
sii turrita con le antenne,
garanzia di investimenti innamorati.
E che nessuno dica
abbiamo fatto gli Italiani ed ecco il risultato,
un popolo abusivo che celebra a distanza
l'anniversario della noncuranza.
Non sappiamo più dove appendere la giacca
e la pazienza.
Come posteri chiediamo conto già adesso
delle mancate vaccinazioni
e delle pieghe crudeli prese dal nostro aspetto.
Con rispetto.