La parola che pongo oggi alla vostra attenzione non è un termine strano, poco usato, no, è una parola che usiamo spesso magari quando siamo un po’ o tanto arrabbiati: “Spacco tutto! Porca miseria!” Ogni tanto ci scappa, diciamo la verità. Vediamo questo "SPACCARE", come è capitato nella nostra lingua e intanto leggiamo sul vocabolario:
SPACCARE - Rompere, spezzare con un’azione violenta, anche usando attrezzi taglienti o contundenti; dividere uno schieramento, un gruppo, un movimento; piacere molto, essere strabiliante per bellezza, per bravura.
Non ci arriva dal latino o dal greco classico ma dall’ipotetica voce longobarda “spahhan”, ‘fendere’.
L’etimologia ci permette di tessere una rete di nessi fra fatti distanti e apparentemente scollegati. Oggi capiamo come il commento dei giovani sul nuovo singolo: “l’hai sentito? Spacca di brutto”, sia collegato senza soluzione di continuità col re longobardo Alboino che varca l’Isonzo alla testa del suo popolo e dall’alto di un monte guarda il bel verde Paese che si accinge a conquistare.
Come le fatine della Bella addormentata nel bosco, nel medioevo ciascuna lingua straniera ha dato all’italiano nascente una benedizione diversa. Io, fràncone, ti dono termini dell’amministrazione e del diritto, io, greco bizantino, ti dono termini della marineria e del commercio, io, longobardo, ti dono termini — anzi praticamente tutti i termini più comuni che mai avrai — della falegnameria e della violenza.
Spaccare è una parola che spacca — in pratica, un’autologia. Deriva dal termine longobardo (ricostruito, perché i longobardi non scrissero in longobardo) spahhan, cioè ‘fendere’. Ha un suono duro, rotto, addirittura faticoso, che trasmette con evidenza l’azione violenta del rompere qualcosa. Non è un rompere qualunque però. È un rompere che taglia e contunde, con colpi energici. Pensiamo allo spaccare la legna: è questo il vigore che ci propone lo spaccare.
Se rompo un bicchiere sono sbadato, se infrango un bicchiere: “oh messere è cosa da nulla”, se spacco un bicchiere: “é che, sono stato cresciuto da una famiglia di rinoceronti?
Questa violenza si trova negli ameni florilegi delle minacce più famose e correnti — dallo spaccare la faccia allo spaccare le ossa — nell’iperbole del sole dalla radiazione così rovente che spacca le pietre, e quasi per ossimoro, per assurdo accostamento di opposti, nella precisione dello spaccare il capello in quattro, dello spaccare il minuto.
Il risultato dello spaccare non è una divisione netta, chirurgica: è doloroso, improvviso, irregolare. Se l’evento divide l’opinione pubblica, se la decisione divide il consiglio, tutto si può svolgere in maniera ordinata, seduta, con una penna o un bicchiere in mano. Ma se l’opinione pubblica si spacca, se si spacca il consiglio, ecco che la situazione si tinge di sgomento, disorientamento.
Ma brillante — per chiudere il rude cerchio longobardo — è il modo in cui lo spaccare si è guadagnato nel linguaggio giovanile (giovanile vintage) un significato completamente positivo. Un atto di distruzione violenta diventa caratteristico di qualcosa che piace tantissimo, di una persona o di una cosa strabiliante per bellezza, bravura. È un’energia che funziona, che calamita, che fa muovere il sangue, che spazza dirompente il vecchio, l’ordinario e il noioso. Spacca l’assolo, spacca il finale di stagione, spacca l’atleta. Che però baderà a non spaccarsi.
In effetti si può considerare anche un altro spaccare, cioè l’aprire un pacco, il togliere da un pacco. Non c’entra nulla, etimologicamente: ‘pacco’ è un prestito dal neerlandese (c’è chi direbbe olandese) pak, in origine un involto, una balla di lana — attestato addirittura a inizio Ottocento.