Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 13,33-37
33Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento.34È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.35Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino;36fate in modo che, giungendo all'improvviso, non vi trovi addormentati.37Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!".
Lectio di don Alessio De Stefano
Il crollo di Gerusalemme e del suo tempio segna la fine di un tempo, ma non del tempo dell’uomo: i cristiani della comunità di Marco lo sanno bene, perché stanno vivendo esattamente in quel tempo, il tempo dell’attesa della seconda venuta del Figlio dell’uomo. Da un lato il fatto che Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni abbiano udito quelle parole di Gesù che spiegava loro il senso della distruzione di pietre su pietre e che adesso la comunità ancora sopravviva, è segno del fatto che, nonostante la drammaticità di quanto sperimentato, la comunità ha continuato a portare avanti la propria missione, annunciando la buona notizia e sentendo il supporto e la vicinanza dello Spirito Santo. Ma è nel cuore di tutti la paura per un altro tempo, per un altro momento, che segnerà davvero la fine del mondo quale lo conosciamo. Le domande dei quattro, allora, stanno ancora lì: quando? E con quali segni ciò avverrà?
Il tempo dell’attesa(vv.24-37) – Questi versetti non hanno più quel carattere evidente di contaminazione tra l’esperienza storica patita dalla comunità e il tono cataclismatico, ma attingono a piene mani dal linguaggio apocalittico e profetico per alludere - controbattendo alla domanda precisa dei discepoli con un’assoluta indefinibilità dei tempi, noti solo a Dio e ignoti finanche al Figlio e agli angeli, cf v. 32 - all’arrivo del kairós, del momento opportuno stabilito da Dio e vagamente descritto con i tratti cosmici dell’oscuramento del sole, della luna “spenta”, delle stelle cadenti... Le immagini provengono dal libro di Isaia, in particolare dal cap. 13, che descrive l’arrivo del giorno del Signore, ma non vanno lette con un preciso intento naturalistico o mimetico: esse stanno a significare la fine del mondo e delle realtà terrene così come noi oggi le conosciamo, una trasformazione che si esprime dicendo il nuovo come capovolgimento del vecchio e di ciò che èpreesistente. In questo contesto entra in scena il Figlio dell’uomo, con una descrizione che fa da legame tra l’annuncio implicito di 8,38 e l’affermazione dinanzi al sommo sacerdote in 14,62, che procurerà a Gesù l’accusa di blasfemia. L’idea trasmessa dalla profezia è, insieme, quella del giudizio di Dio e del riconoscimento definitivo dell’autorità del Figlio dell’uomo, ma ad essa si affianca una bella immagine di raduno, dai quattro angoli del mondo, non di un resto di dispersi o esiliati (come avrebbe voluto Is11,12), bensì degli eletti. È molto suggestiva l’immagine degli eletti di Dio sparsi per le estremità del mondo, perché ciò significa che essi hanno portato avanti la missione loro affidata in 13,10, ossia che la buona notizia venisse annunziata davanti a tutti i popoli. Questo è un segno di grande fecondità e universalità della missione della comunità cristiana, immaginata da Gesù come diffusa fino alle estremità della terra e del cielo nonostante la grande tribolazione affrontata. Gesù ci crede davvero nella possibilità di attraversare il dolore e la morte! Anche nel discorso del cap. 13 egli inserisce due immagini paraboliche, uno dei suoi tratti pedagogici distintivi: il fico con i rami verdi (v. 28) e il padrone di casa che si mette in viaggio (vv. 34-36). La prima, in una terra abbondante di fichi (che non è un albero sempreverde), è chiaramente comprensibile dall’uditorio, giacché il ramo verde e tenero della pianta che rinasce è segno eloquente dell’avvicinarsi dell’estate… ci dirà che il Figlio dell’uomo è alle porte. La seconda immagine parabolica è quella del padrone di casa che parte dopo aver affidato compiti e responsabilità a servi e custodi. L’ora o il giorno del suo ritorno sono ignoti: e se arrivasse al canto del gallo? E se trovasse i suoi servi addormentati? L’urgenza dell’invito, allora, è tutta rivolta all’atteggiamento interiore dei discepoli, che deve essere: vegliare! Quanto suonerà amaramente ironico, dopo questi ripetuti inviti alla vigilanza, constatare nei discepoli più intimi l’incapacità a vegliare finanche un’ora nell’orto del Getsemani! E quanto suonerà più amaro il rinnegamento di Pietro al canto del gallo, dopo queste parole! Tuttavia, proprio l’esistenza del vangelo testimonia che quella lezione si è trasformata in esigenza di vita, e che con occhi pure stanchi e talvolta chiusi, la comunità, aiutando i discepoli, ha conservato nel cuore il desiderio alla vigilanza. Ma il sonno e l’assopimento son sempre dietro l’angolo: la parola consegnata ai discepoli è estesa a tutti: «Vegliate!» (v. 37). A ciascuno è affidato un compito, un pezzo di casa; ciascuno avrà i propri tribunali e interrogatori da affrontare, ma anche una buona notizia da portare. Anzi la buona notizia, racchiusa nelle parole di Cristo, sarà proprio ciò che accompagnerà e distinguerà gli eletti fino alla fine. Finanche in quella trasformazione del mondo così come lo conosciamo, finanche di fronte a un sole oscurato e una luna “spenta”, avremo una compagnia familiare e indefettibile, e sarà quella delle parole di Gesù (v. 31). Carichi di questo pathos, di questa eredità insieme gravosa e preziosissima, accompagniamo il nostro Maestro verso la sua, personalissima battaglia finale, capaci di starci con la fragile generosità e la certa paura dei discepoli. Siamo alle soglie della passione: lo spectaculum crucis sta per iniziare.
Nell'allegato la proposta di una preghiera speciale per la pandemia in corso