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Vangelo di domenica 25 Aprile 2021

buon pastore.jpgVangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 10,11-18

11 Io-Sono il Pastore bello, il Pastore bello espone la sua vita a favore delle pecore. 12 Il mercenario e chi non è pastore, al quale le pecore non appartengono vede venire il lupo e abbandona le pecore e fugge. E il lupo le rapisce e le disperde, 13 perché è mercenario e non gli interessa delle pecore. 14 Io-Sono il Pastore bello e conosco le mie e le mie conoscono me. 15 Come il Padre conosce me e anch’io conosco il Padre e dispongo la mia vita a favore delle pecore. 16 Anche altre pecore ho che non sono di questo recinto. Anche quelle bisogna che io conduca. E ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo Pastore. 17 Per questo il Padre mi ama, perché io depongo la mia vita per prenderla di nuovo. 18 Nessuno la toglie da me, ma io la depongo da me stesso. Ho il potere di deporla e ho il potere di prenderla di nuovo. Questo comando ho preso da parte del Padre mio.

Lectio di don Alessio De Stefano

Il pastore dà la vita per il suo gregge (vv. 7-18) – Nei versetti precedenti alla nostra pericope Gesù interpreta per i suoi interlocutori la pro­pria similitudine applicando a se stesso prima l’immagine della porta (vv. 7-10), per passare, nel nostro testo, a quella del pastore (vv. 11-18). La sequenza non è affatto casuale: solo l’approfondimento del­la prima immagine potrà consentire di comprendere fino in fondo il significato della seconda. Identificandosi con «la porta delle pecore», con un detto «io sono» introdotto solennemente da «in verità, in verità vi dico» (v. 7) e poi riaf­fermato brevemente (v. 9), Gesù si definisce simultaneamente unica via di accesso delle pecore alla vita e, dunque, unica via legittima di accesso del pastore alle pecore. L’utilizzazio­ne dell’immagine della porta in duplice direzione - come ingresso verso il gregge e uscita verso la vita - è coerente: l’unica porta che le pecore sono chiamate ad attraversare (e che spontaneamente attraverseranno) è quella che le conduce con certezza a pascoli nutrienti di vita (v. 9: «entrerà, uscirà e troverà pascolo», cf Sal 23,2; Ger 23,3; Ez 34,14); conse­guentemente, se Gesù è venuto perché le pecore «abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (v. 10), egli si può ritenere a buon diritto «porta» delle pecore alla vita e, dunque, unica via legittima di accesso alle pecore per chiunque volesse condurle al pascolo.

È l’intenzione e lo scopo con il quale si «viene», in fondo, a determinare la differenza tra il pastore e le sue controfigure, tra chi accede al gregge per la porta e chi prova ad entrare da altre vie. Tutti i venuti «prima di» Gesù o al posto di lui quale unico vero passaggio di accesso delle pecore alla vita (v. 8), si possono considerare alla stregua dei ladri e briganti che pensano di poter avere accesso al recinto del gregge «da altrove» (cf v. 1) perché non si sono fatti loro stessi via di accesso delle pecore alla vita (cf Mt 23,4). Le pecore, però, non li «hanno ascoltati» (cf v. 5). Benché l’ap­plicazione all’uomo dell’immagine della porta determini una tensione, l’applicazione più familiare dell’immagine del pastore non si potrebbe capire senza la prima: può essere pastore solo chi fa di se stesso e diventa in se stesso, per le pecore, via di transito per la vita. Chi non si rende anzitutto in se stesso via alla vita non può volere accesso al gregge se non per usarlo e sfruttarlo a proprio esclusivo vantaggio e tornaconto; dunque, per non altro che per distruggerlo (v. 10; cf Ger 23,1-2; Ez 34,1-10).

Benché appositamente ritardata per essere compresa fino in fondo nelle sue implicazioni, nei vv. 11-18 arriva quindi l’applicazione a Gesù dell’immagine del pastore. Mentre nei vv. 11-13 l’autoidentificazione di Gesù con il vero pastore si chiarisce attraverso il contrasto tra l’immagine del pastore proprietario e quella negativa del pastore salariato o merce­nario, nei vv. 14-18 essa si chiarisce attraverso il riferimento positivo al rapporto di Gesù con il Padre. Il «dare la propria vita per le pecore» (lett.: «deporre» o «disporre la propria ani­ma in favore di») è, in entrambi i casi, l’atto discriminante e identificante di Gesù quale vero pastore (lett.: kalós, «bello»): quello che lo rende istintivamente, esteticamente riconoscibile dalle pecore, perché autentico, efficace nell’essere e nell’agire la propria identità funzionale attraverso le «opere belle» a salvezza del gregge (cf 10,32-33); quello che lo differenzia dal pastore mercenario, che non ha nessun legame personale stretto e identificante con il gregge (vv. 12b.13b), che è pronto a fuggire quando è sotto minaccia e la cui vita e il cui ruolo non sono danneggiati, in fondo, se accade che una bestia feroce ne faccia strage (v. 11); quello che lo lega strettamente al Padre (vv. 15.17-18) e fa di lui il vero pastore messianico, quello a cui il Dio di Israele, unico Pastore sovra­no, avrebbe affidato il suo gregge nel tempo del compimento della sua alleanza di pace con il suo popolo (cf Ez 34,11-16.23- 31; 37,15-28). Il «dare la propria vita per le pecore», in ultima analisi, è ciò che rende Gesù porta di vita per le sue pecore e, dunque, autentico pastore. Il donare la vita è il suo modo di accedere al gregge e di consentire alle pecore di accedere alla vita. Questo è il linguaggio unico, universale e privo di ambiguità che, tanto dentro che fuori i confini dell’ovile di Israele (cf v. 16), rende efficace la sua comunicazione con il gregge (la conoscenza e il riconoscimento reciproci, v. 14) e fa di questa stessa relazione e comunicazione il luogo tra­sparente di rivelazione dell’essere di Dio Pastore di Israele, Padre che conosce il Figlio ed è da lui conosciuto e rivelato (cf v. 15; Mt 11,27 // Lc 10,22). Se il problema su cui si imbattevano i farisei nella valutazione del miracolo di guarigione dalla cecità compiuto in giorno di sabato era quello del rapporto tra Gesù e la legge, i versi finali del testo (17-18) mostrano che unico è il «coman­damento» che Gesù deve eseguire da parte del Padre e che attesta il vincolo d’amore che lo lega al Padre senza opacità: quello di farsi porta e pastore donando se stesso liberamente. Non per la necessità imposta da altri («nessuno» gli strappa la vita, v. 18), ma per il potere personale di vivificare che lui ha in proprio, in quanto Figlio (cf 5,21.26-27; 17,2), e che esercita donando la vita con la certezza di poterla anche riprendere. Su questo suo «potere» che gli dà accesso legittimo al gregge ogni pastore dovrà misurarsi ed essere misurato.

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