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Vangelo di Domenica 5 Settembre 2021

Effata.jpgVangelo di Gesù Cristo secondo Marco 7,31-37
In quel tempo31Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. 32Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. 33Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; 34guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». 35E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. 36E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano 37e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!»

Commento di p. di Luciano Manicardi

Il brano evangelico odierno presenta il racconto di una guarigione compiuta da Gesù in territorio pagano. Il versetto 31 descrive il percorso di Gesù nominando sempre località pagane e terminando con la menzione della Decapoli, dove Gesù aveva già incontrato e guarito l’uomo posseduto dallo spirito chiamato “Legione” (Mc 5,1-20). Al di là della stranezza e dell’approssimazione del percorso, che preso alla lettera è di più di cento chilometri, forse il testo vuole indicare che la permanenza di Gesù in territorio pagano è durato un tempo consistente e che Gesù ha girato “in lungo e in largo” in terra pagana.

Ed ecco che viene condotto a lui un “sordomuto”, o meglio, un uomo “sordo” e “balbuziente”, “che parla con difficoltà”. Troviamo qui lo stesso verbo che nel greco dei Settanta (che traduce un termine ebraico che indica i muti) designa i balbuzienti in Is 35,6: “la lingua dei balbuzienti griderà di gioia”. In effetti, a guarigione avvenuta, si dirà di quest’uomo non tanto che aveva ritrovato la parola, ma che “parlava correttamente” (Mc 7,35). Incapace di ascoltare, egli non sa neppure esprimersi correttamente e perde la capacità comunicativa trovandosi in un isolamento doloroso. È l’incapacità di comunicare che affligge quest’uomo privandolo della sua soggettività: egli è totalmente passivo. Condotto da altri a Gesù, è oggetto di gesti e parole da parte di Gesù finché viene liberato dai vincoli che lo imprigionavano impedendogli di comunicare. Ed è significativo che, per guarire dalla sua incapacità comunicativa e ritrovare la sua soggettività, egli debba essere separato dalla folla e portato in disparte: lì può essere restituito a se stesso e diventare soggetto della sua parola. Lì avviene l’incontro personale con Cristo. La narrazione di Marco costruisce un interessante parallelo tra la guarigione in terra pagana di quest’uomo sordo e quella successiva, che avviene in terra d’Israele, a Betsaida, di un uomo cieco (Mc 8,22-26). Connessa a quest’ultima guarigione, che presenta elementi letterari e tematici molto simili al testo che stiamo considerando, la nostra narrazione svela una dimensione simbolica. Le due pericopi inquadrano episodi in cui Gesù si confronta con l’incomprensione e con l’inintelligenza dei suoi discepoli (cf. Mc 8,4.14-21) che “hanno orecchi e non ascoltano, hanno occhi e non vedono” (cf. Mc 8,18), con l’ostilità dei farisei (cf. Mc 8,11-13), mentre moltiplica contatti salvifici con pagani (cf. Mc 8,1-9; anche il nostro episodio si svolge in terra pagana). Insomma, la sordità che impedisce di parlare correttamente riguarda i discepoli e significa un non-ascolto della Parola che conduce a non annunciarla correttamente o a non confessare adeguatamente la fede (come Pietro in Mc 8,27-33). Solo un ascolto della Parola assiduo e profondo genera un annuncio autentico e efficace. Possiamo riferire tutto questo alla vita della chiesa affermando che solo una ecclesia audiens può essere anche ecclesia docens. O, come scrisse il teologo Joseph Ratzinger commentando il proemio della Dei Verbum (“In religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia”): “è come se l’intera vita della Chiesa fosse raccolta in questo ascolto da cui solamente può procedere ogni suo atto di parola”. Fuori di questo ascolto, di questa apertura vivificante e sanante alla Parola, l’annuncio della chiesa si riduce a balbettio o addirittura a sproposito. In questo senso, il gesto terapeutico di Gesù di mettere le dita negli orecchi dell’uomo acquista una valenza spirituale nella linea delle espressioni bibliche che parlano di circoncidere gli orecchi (cf. Ger 6,10), forare gli orecchi (cf. Sal 40,7), ovvero aprire il canale attraverso cui la rivelazione raggiunge il cuore dell’uomo e gli consente di lodare Dio e di annunciare le sue azioni (cf. il rapporto tra “risveglio” degli orecchi e lingua ben istruita in Is 50,4).

effata apriti.jpgNel nostro testo colpisce la descrizione dettagliata dei gesti terapeutici che Gesù mette in atto per ottenere la guarigione. Cosa che avverrà anche per la guarigione del cieco di Betsaida, dove il gesto terapeutico deve persino essere ripetuto una seconda volta (Mc 8,23-25). È come se Marco volesse qui far intendere la fatica che a Gesù costano le guarigioni, o almeno alcune guarigioni più di altre, il tempo che Gesù deve dedicarvi, le energie che deve spendere. Niente di magico nei suoi atti curativi. Qui, Gesù cura e guarisce con il suo stesso corpo. Guarisce un corpo con il suo corpo. Altrove, nei vangeli, si dice che Gesù guarisce con la potenza della sua parola, ma qui il soggetto che opera la guarigione è il corpo stesso. Il suo corpo è la sua parola: questo significa l’incarnazione. Il corpo è visibile verbum. La parola, “effatà”, “apriti”, giunge al termine di un’intensa comunicazione corporea: Gesù prende il sordo con sé e lo porta in disparte, gli pone le dita negli orecchi, con la saliva gli tocca la lingua. Siamo di fronte a un contatto e a un’intimità davvero sconcertanti. È per questo che Gesù isola il malato allontanandolo dalla folla? Per metterlo al riparo dalla curiosità? Per proteggere pudicamente i gesti di scambio corporeo richiesti dalla cura? Tra l’altro, il lettore si chiede come l’uomo, che è sordo, possa sentire la parola che Gesù pronuncia. Ma forse più che parola rivolta al sordo, quell’effatà è un’invocazione, una supplica, una preghiera che Gesù pronuncia mentre guarda in alto, verso Dio, e mentre geme, quasi con-soffrendo con colui che soffre e non ha nemmeno la capacità di dire il proprio dolore. È come se Gesù stesse intercedendo: come se si stesse rivolgendo a Dio in nome di un altro. È come se Gesù stesse implorando di poter compiere un gesto che egli invoca da Dio, il Dio che apre gli orecchi dei sordi e fa gridare di gioia la bocca del muto, secondo l’annuncio isaiano della liberazione dalla schiavitù babilonese, figura della liberazione messianica (Is 35 secondo il testo ebraico). Ed è anche come se Gesù stesse parlando a nome del sordo che non sa parlare correttamente e che anela l’apertura dei canali comunicativi: gli orecchi, la bocca.

Quest’uomo simbolizza la situazione per cui la “salvezza” è fondamentalmente esperienza di alterità, è apertura e affidamento a un altro, passa attraverso un altro. E passa attraverso un corpo. Passa attraverso un altro umano, un’altra persona, uno in carne e ossa, un corpo, come specifica l’esteso riferimento alla corporeità: in questo incontro la fisicità è centrale. Il testo parla di mani, dita e tatto, di ascolto e di orecchi, di lingua, saliva e parola, di occhi e di sguardo. Se il corpo è il nostro modo di essere al mondo e di comunicare con il mondo, Gesù deve svegliare la vita corporea di quest’uomo, deve ridestarne i sensi perché egli possa ritrovare il senso del vivere. Come sempre, lo spirituale avviene grazie alla mediazione del corporeo, avviene nel corporeo. E soprattutto il corpo di Gesù è parola che risveglia il corpo dell’uomo sordo alla capacità di parola e di comunicazione. Gesù dà la parola al corpo incapace di comunicare. I gesti compiuti da Gesù rinviano certamente a usanze terapeutiche dell’epoca: la saliva, per esempio, era ritenuta dotata di capacità curative (cf. anche Gv 9,6, quando Gesù sputa per terra, impasta del fango con la saliva e la spalma sugli occhi dell’uomo cieco dalla nascita). In ogni caso, questa gestualità, con tutta probabilità, ha influenzato il rito battesimale dell’apertura delle orecchie che troviamo attestato in epoca assai antica sia a Milano che a Roma e che avveniva prima della “rinuncia a Satana” e comportava la pronuncia dell’Effatà, “Apriti”. Marco ci tiene a sottolineare che Gesù pronuncia questa parola in aramaico, nella sua lingua madre. È come se l’evangelista volesse dire che, emettendo gemiti (ingemuit: Mc 7,34), Gesù si esprime in modo inarticolato, come il sordo balbuziente, e poi, parlando nella sua lingua madre, esprime se stesso in verità e profondità, affinché l’incontro tra i due avvenga in pienezza e verità, nel radicale rispetto di ciascuno. Ma certo, l’indicazione del linguaggio del gemito e gli occhi levati al cielo, indicano che Gesù sta pregando e si sta rivolgendo a Dio con quel linguaggio di “gemiti inesprimibili” (Rm 8,26) che è proprio dello Spirito.

A questo punto segue la piena guarigione dell’uomo (Mc 7,35). E Gesù impone il silenzio su quanto avvenuto. Dopo aver operato perché il balbuziente ritrovi la piena capacità di parola, ecco che, paradossalmente, e quasi in modo contraddittorio, Gesù proibisce di narrare quanto avvenuto. “Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano” (Mc 7,36). Marco utilizza il verbo tecnico dell’annuncio evangelico (kerýssein) e sembra voler dire che tale è la potenza dell’evangelo, che qui si è manifestato nella guarigione di quest’uomo, che non vi sono argini o interdetti che possano contenerlo. È come il vino nuovo che, versato in otri vecchi, li fa esplodere e tracima (Mc 2,22). Ed ecco infine il commento della folla: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti” (Mc 7,37). Uno solo è guarito, ma l’acclamazione della folla universalizza il gesto di Gesù parlando di muti e sordi al plurale (cf. Mc 7,37). L’esperienza di Dio conosciuta da qualcuno una volta nella storia può essere confessata nella sua estensione universale e nella sua dimensione di eternità nell’azione di grazie, e massimamente nella celebrazione liturgica (cf. il Salmo 136).

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