Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 15,1-2.11-32
1Ora continuavano ad avvicinarsi a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2 E borbottavano i farisei e gli scribi, dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro! 3Ora disse loro questa parabola dicendo: 11 Ora disse: Un uomo aveva due figli; 12e disse il più giovane di loro al padre: Padre, da’ a me la parte di sostanze che mi tocca. Egli poi divise tra loro la vita. 13E, non molti giorni dopo, raccolto tutto, il figlio più giovane emigrò in paese lontano; e là sperperò la sua sostanza vivendo insalvabilmente. 14Ora, dilapidato tutto, venne una carestia forte per quel paese; ed egli cominciò ad essere nel bisogno 15e andò a incollarsi a uno dei cittadini di quel paese; e lo mandò nei suoi campi a pascere i porci. 16E desiderava saziarsi delle carrube che mangiavano i porci e nessuno gliene dava. 17Ora, venuto in se stesso, disse: Quanti salariati di mio padre sovrabbondano di pane; io, invece, di carestia qui perisco. 18Sorgerò e andrò verso mio padre e dirò a lui: Padre, 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio: fa’ a me come uno dei tuoi salariati. 20E, sorto, venne da suo padre. Ora, mentre ancora distava lontano, lo vide il padre e si commosse e corso cadde sul suo collo e lo baciò. 21Ora gli disse il figlio: Padre, peccai verso il cielo e al tuo cospetto; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. 22Ora il padre disse ai suoi servi: Presto, portate fuori una veste, la prima, e vestitelo; e date un anello alla sua mano e sandali ai piedi 23e portate il vitello, quello di grano: immolatelo e, mangiando, facciamo festa, 24perché costui, il figlio mio, era morto e rivive, era perduto e fu ritrovato. E cominciarono a far festa. 25Ora il suo figlio, il maggiore, era in campagna. E quando, venendo, si avvicinò alla casa, udì sinfonie e danze. 26E, richiamato uno dei servi, s’informava che mai fosse ciò. 27Ora egli gli disse: Tuo fratello venne e tuo padre sacrificò il vitello di grano perché lo ha ottenuto sano e salvo. 28Ora si adirò e non voleva entrare. Ora suo padre, uscito, lo consolava. 29Ora, rispondendo, disse al padre: Ecco: da così tanti anni ti sono schiavo e non trasgredii mai un tuo ordine; e a me non desti mai un capretto perché facessi festa con i miei amici. 30Ma ora quando venne il figlio tuo, costui, che divorò la tua vita con le meretrici, immolasti per lui il vitello di grano. 31Ora egli gli disse: Figlio, tu sei sempre con me e tutte le cose mie sono tue. 32Ora bisognava far festa e rallegrarsi perché il fratello tuo, costui, era morto e visse, e, perduto, fu ritrovato.
Lectio di don Alessio De Stefano
Il contesto 15,1-3 - I’incipit del capitolo segnala il contesto di fondo: la prossimità di pubblicani e peccatori a Gesù. Scribi e farisei esprimono il loro giudizio si col verbo “mormorare”, che ricorda inesorabilmente le mormorazioni di Israele nel deserto. Allora Gesù si rivolge a questi ultimi con esempi concreti ritagliati dall’esperienza storica personale ed umana per presentare il vero volto di Dio… solo un Dio che si misuri con la vita e non solo con la teoria o la tradizione può essere veramente fonte di salvezza.
Il padre che si congeda e poi si ritrova con un figlio 15,11-32 – Il terzo quadro della parabola si presenta in quattro sequenze narrative. La prima sequenza (vv.11-12) – In questa prima sequenza il lettore è collocato nel contesto di una famiglia formata da un padre e due figli. L’antefatto è che il più piccolo dei due chiede al padre la sua parte di eredità per potersene andare da casa… sono due fratelli e un padre che non fanno pensare a cose tranquille. Ed ecco le stranezze del testo: il più piccolo chiede la sua parte di “sostanze” e il padre senza problemi gliela dà. Era cosa irrituale che un padre concedesse l’eredità prima della sua morte. Ciò che colpisce non è solo che il padre non batta ciglio e faccia quanto il figlio chiede, ma anche la semantica dei vocaboli usati per dire “patrimonio” e “averi” (ousia e bios). Essa va al di là dei beni materiali ed indica l’essere e la vita stessa. La seconda sequenza (vv. 13-17) - Il figlio parte e va ad investire la propria vita, come ogni figlio adulto dovrebbe fare. Egli resta il più giovane tra i due figli dell’uomo in questione, ma non è più un minorenne. Ormai è responsabile della sua vita e delle sue scelte. Purtroppo fa scelte “senza salvezza” (asόthos). Che non gli fanno, cioè, conquistare un guadagno, non moltiplicano la sua ricchezza di partenza, ma, al contrario, gliela fanno perdere. Perché? Cosa indica il testo come errore del figlio? Il fatto di avere scambiato la ricchezza di se stesso, della propria storia e della propria vita, con il denaro che aveva in tasca e che suo padre gli aveva dato. Pensava di poter costruire il suo futuro con quel denaro. Ma si accorge che la vita si costruisce con delle relazioni di “sostanza”, non con un do ut des di “sostanze”. Sulla via del vivere mercanteggiando il valore di se stesso, il ragazzo spende senza ricevere niente, perde senza guadagnare, declassando, così, via via la sua persona ad un oggetto di consumo e ad un soggetto di bisogni. Quando giunge la carestia, egli si mette a pascolare i porci, pur di sopravvivere. Si è ridotto ad una mera bocca da sfamare. Di quella vita che il padre gli aveva consegnato non è rimasto che una funzione fisiologica. Essa vale meno di quella dei porci, animale peraltro impuro per il mondo biblico (cf Lv 11,7). L’esperienza della fame, ma soprattutto della perdita dell’umana dignità, fa tornare il ragazzo in sé.
Lo fa ragionare. Gli fa capire tutto quello che ha vissuto sinora. Gli fa conoscere suo padre, ormai con occhi da adulto. Innanzitutto come un uomo che ha rispetto della propria servitù, ora che anch’egli è servo e si vede negati gli elementari diritti. Perciò decide di tornare da lui. Come salariato, naturalmente. La terza sequenza attiva l’azione (vv. 18-24) - Quanto è stato descritto in precedenza avveniva nel profondo dell’anima del figlio che, adesso, decide di tornare dal padre. Non è più il figlio che è partito ed il suo non è un ritorno per senso di colpa. Ci mancherebbe altro! Ogni figlio deve lasciare la sua casa e fare il viaggio della sua libertà per diventare adulto e farsi uomo. Chi torna è ormai un adulto, capace di scegliere in base a ciò che riconosce come buono: la giustizia di suo padre.
Fin qui l’azione del figlio. Ora la scena cambia e visiona l’altro punto di vista: la casa del padre. Qui egli sta ad aspettare, tanto che lo «vede da lontano». Lo aspetta per far festa. Lo aspetta per dargli molto di più di quanto lui viene a chiedere. È bastato quel pizzico di intelligenza del figlio, quella sua libera iniziativa di ritorno a che il padre preparasse il centuplo. È bastato che il figlio facesse l’esperienza che al mondo non si può neppure sopravvivere da schiavi, se non ci sono dei legami spirituali che consentono dignità, rispetto e senso della vita di ciascuno. Che la vita dell’uno è legata alla vita dell’altro e solo nell’amore fraterno e vicendevole ogni uomo può vivere ed ogni società trova il suo fondamento e il suo sostegno, a partire da quella più piccola che è la famiglia. I gesti che il padre compie sono materni, paterni, regali. Materno è il suo guardare la strada nella speranza che il figlio ritorni. Paterna è la sua commozione profonda, il risalire del liquido di vita dal basso delle sue viscere, quando l’abbraccio verso il figlio è come generarlo ancora, farne una nuova creatura. Regali sono i gesti dell’anello, della tunica e dei sandali: quel ragazzo non ha più il posto di un figlio, in qualche modo ancora sottoposto al padre, ma è un “re”, libero e sovrano a tutti gli effetti. Tutto ciò è quanto prepara il banchetto della gioia e della festa. Un banchetto di fraternità, di amicizia, di condivisione.
Una nuova economia del mondo. L’ultima e risolutiva sequenza (vv. 25-32) - Essa sposta l’obiettivo fuori dalla casa, nella campagna. Lì c’è il figlio e fratello maggiore. Avvicinandosi a casa sente la musica, ma non sorride. Si difende, piuttosto, con una domanda che prelude ad una valutazione razionale di ciò che sta accadendo e poi di un rifiuto e una condanna. Nel suo cuore non c’era mai festa, neppure di sabato. Il suo cuore non conosceva la gioia e quindi non era capace di goderne, anche quando fosse giunta a sfiorarlo. Difficile era per lui comunicare con suo padre, tanto è vero che chiede ad un domestico. Ma il padre si presenta di persona rispondendo alla durezza del figlio con estrema dolcezza. Lo prega addirittura per convincerlo ad entrare. Segno di un amore altrettanto grande di quello per il figlio più piccolo, al suo ritorno. Sembra quasi che faccia di più. Quel figlio rimasto in casa, infatti, si concepiva come un dipendente e si limitava a spendere il proprio lavoro a casa di suo padre, pur di avere delle garanzie, pur di esser protetto. Questo stile di vita lo aveva reso più ottuso di suo fratello. La sua vita era solitaria, il suo cuore chiuso. Non conosceva la bontà della paternità come dono, né l’incomparabile ricchezza dell’avere un fratello. Non faceva nulla con libertà ed amore, ma ogni cosa per una interessata e miope acquiescenza. Era restato un servo nelle opere e nelle parole, nella mente e nell’anima. Questa è la ragione dell’accorato invito che il padre gli fa di partecipare alla festa: solo al banchetto della fraternità sarebbe diventato un uomo libero. La mensa della gioia dove la liturgia è condizionata alla comunione fraterna e all’amicizia, dove la morte si trasforma in vita e ciò che era perduto si ritrova moltiplicato ed elevato alla centesima potenza.
(Il dipinto (1658) nella foto è del pittore calabrese Mattia Preti ed è esposto nella galleria del Palazzo Reale a Napoli)