Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 10,27-30
27 Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco e mi seguono; 28 io do loro vita eterna e non periranno nei secoli, né alcuno le rapirà dalla mia mano. 29 Il Padre mio, riguardo a ciò che mi ha dato, è più grande di tutti e nessuno può rapire dalla mano del Padre. 30 Io e il Padre siamo uno.
Lectio di don Alessio De Stefano
Gesù stesso nel v.27 detta le condizioni di appartenenza al gregge attraverso le espressioni: «ascoltare la sua voce» «seguirlo», «conoscere». Questi tre atteggiamenti sono proprio gli stessi che sono stati elencati nel discorso precedente per caratterizzare il comportamento delle pecore («ascoltare» cf. vv. 3.16; «seguire» cf. v. 4; «conoscere»; cf. v. 14). Si può quindi desumere che questi termini siano costitutivi del vocabolario della fede. Al contrario i giudei non assumono nessuna delle attitudini sopra menzionate. Il pastore (v.28) non solo conosce le pecore, ma dà loro «la vita piena». Per esaltare il valore di questo dono è negato il suo contrario: «non andranno mai perdute» (cf.v. 10). Nel discorso sul pane Gesù illustrando il piano di Dio afferma: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla…» (Gv 6, 39). Questo verbo ha una connotazione non soltanto esistenziale, ma salvifica. In altre parole con esso non si fa riferimento unicamente alla morte naturale, ma alla perdizione. La vita, dono già attuale, viene promessa per sempre, fondata sulla fede in Gesù ed è illustrata nel Quarto vangelo anche con la simbologia dell’acqua viva (Gv 4, 14.36) e del pane disceso dal cielo (Gv 6, 12.27.35.40.47.48). Per descrivere la situazione di sicurezza si afferma che le pecore non possono essere rapite dalla mano del pastore. Le immagini ricordano il tempo della crisi e servono a ridare fiducia ai credenti. Infatti il simbolo della mano che ha un retroterra biblico per indicare garanzia e protezione (Dt 32, 39; Is 43, 13; 49, 2; 51, 16;), sottolinea proprio l’efficacia della salvezza di Gesù. Il verbo barpazo, con cui si indica un gesto di violenza, ha avuto in precedenza come soggetti il ladro e il saccheggiatore, personaggi che hanno preceduto l’autentico pastore (vv. 1.8.10). Da queste affermazioni si può desumere che chi ascolta veramente la voce e segue non può essere estromesso dall’azione salvifica di Gesù. Il gregge di cui Gesù è l’autentico pastore non è solo suo, ma in realtà gli è stato affidato dal Padre. Il verbo «dare»/didomi, che spesso ha come soggetto Dio e destinatario Gesù, ha i seguenti oggetti: «il giudizio, la vita, le opere, il potere, gli uomini, la gloria, tutto» (Gv 5, 22.26.27.36; 6, 37.39; 11, 22; 13, 3). Pertanto il termine fa parte del vocabolario con cui si indica l’azione salvifica di Dio. Questa volta l’oggetto del dare è descritto attraverso il simbolo delle pecore. Espressioni analoghe, sempre composte con tale verbo, ricorrono frequentemente nel Quarto vangelo per indicare l’iniziativa di Dio, necessaria nell’adesione di fede alla figura di Gesù (Gv 6, 37.39; 17, 2.6.9.11.12). La concessione si giustifica con il fatto che il Padre è più grande di Gesù. Questa affermazione è ripetuta anche nel discorso di addio: «Se mi amate, gioirete perché vado dal Padre, poiché il Padre è più grande di me» (Gv 14, 28). Con tale terminologia si vuole indicare come Dio sia all’origine della creazione, del dono della fede e dell’invio di Gesù (Gv 6, 37.39.44.65; 17, 6). Questa grandezza quindi non va compresa in relazione alla sua essenza, quanto al suo ruolo salvifico, che ha inizio con la storia cosmica. Per indicare la grandezza di Dio ora Gesù afferma che nessuno può rapire il gregge dalla mano del Padre. Questa sovrapposizione, apparentemente contraddittoria, tra l’affermazione precedente secondo cui nessuno può portare via le pecore dalla mano di Gesù e quella seguente, in cui nessuno può sottrarle dalla mano del Padre, è giustificata con l’affermazione che Gesù e Dio sono uno. L’unità di Gesù con il Padre è alla base della composizione unitaria del gregge. Per la prima volta qui viene affermata da Gesù e sarà poi riconfermata nella preghiera di addio (Gv 17,11.21.22.23). Questa comunione già espressa nella prima parte del discorso, che fa seguito alla guarigione dell’infermo alla piscina di Betzathà (Gv 5,19-30)… Le opere che Gesù compie non sono solo sue, ma del Padre. Gesù risuscita i morti, ha la vita in se stesso, come Dio (cf. Gv 5,21-30). La relazione profonda con il Padre viene rivendicata ancora da Gesù anche nel discorso del pane con il quale egli afferma: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me…» (Gv 6, 37-38). Egli inoltre sempre in questa esortazione promette la vita eterna, dono che soltanto Dio può concedere. “Una cosa sola nel potere di dare la vita eterna, una cosa sola nella gioia dell’amore, in cui si donano l’un l’altro e in cui la gioia del ricevere e quella del ridonare sono così perfettamente fuse tra di loro da non risultare più distinguibili. Dio non è un’unità rigida, bensì un’unità che continuamente batte all’unisono nell’amore, un accrescimento eterno nella quiete eterna.” (A. von Speyr, I discorsi polemici)