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21 marzo Giornata nazionale in ricordo delle vittime delle mafie

memoria vittime di mafia.jpg«La partecipazione è stata poco rappresentativa delle varie realtà che sono presenti nel territorio. Questa non è una cultura di oggi, è un substrato che si è formato nei decenni. Oltre a ciò, c’è anche paura. Le comunità ecclesiali che si ispirano al Vangelo non hanno vinto questa paura e non erano presenti. Questo vuol dire che incidiamo poco a livello culturale. Anche a livello ecclesiale dobbiamo dare risposte più incisive».

Nelle ore immediatamente successive all’arresto di Matteo Messina Denaro, commentando le piazze semideserte nonostante l’invito a manifestare contro le cosche, così il parroco di Castelvetrano dipingeva la situazione in paese, inserendo un elemento di cruda (e dura) verità in una cornice altrimenti immacolata, piegata – come sempre in queste occasioni – a celebrazioni e rivendicazioni di successi che suonano talmente altisonanti da far apparire quasi ogni arresto di personaggi di indubbio spessore e caratura criminale non come la vittoria di una battaglia di una guerra ancora lunga, ma come la fine della stessa guerra.

Ora: se non v’è dubbio alcuno che la cattura del capo di Cosa Nostra segni un momento importante – pur se tardivo – nella strategia di contrasto all’organizzazione criminale, resta sullo sfondo il quesito di sempre: cosa fare per favorire la nascita e l’affermazione di una cultura non più mafiogena? Quale Chiesa immaginare per offrire risposte incisive a livello ecclesiale nei territori pervasi dalla presenza mafiosa?

Un fenomeno antico, quello delle mafie, capace di trasformarsi continuamente, legandosi sempre più al contesto sociale e culturale meridionale ed in grado di diffondersi nei vari continenti: da multinazionale del crimine e degli affari, esse vanno militarizzando il proprio agire, accreditandosi come risposta di integrazione sociale e vera e propria società criminale organizzata, per occupare ogni spazio disponibile (oggi anche quello della ripresa economica dopo la crisi pandemica), non escluso quello religioso, nelle sue forme plurimillenarie di devozione popolare. Il richiamo al cristianesimo, in particolare, è stato utilizzato, ormai nei secoli, per lucrare consenso sociale, mescolando fede e potere, sangue e preghiera, in un abbraccio che la Chiesa ha oggettivamente faticato a sciogliere. Anzi, senza troppi giri di parole: ad alcuni, forse molti, la Chiesa sembra aver tollerato troppo a lungo, al punto da far ipotizzare l’assenza di una chiara coscienza del problema che la mafia rappresenta per la crescita civile e religiosa. Una finzione infine svelata, attraverso un processo di maturazione ecclesiale culminato nel grido lanciato da san Giovanni Paolo II ad Agrigento, nel 1993, più di recente seguito dalla scomunica inflitta ai mafiosi da papa Francesco, nel corso della sua visita in Calabria nel 2014.

Oggi, innegabilmente, si è voltato pagina. Il martirio di Rosario Livatino, ed ancor prima quello di padre Pino Puglisi, sono un memento ineludibile: la Chiesa non è uno strumento di lotta istituzionale alle mafie (per questo ci sono la magistratura, le forze dell’ordine, i servizi sociali); ma è un potente strumento di prevenzione educativa e formativa, perché può – e deve - seminare il buon seme della coscienza retta, della parola pacificatrice del Vangelo, della prassi di amore e di solidarietà verso i più deboli e gli scartati. La Chiesa deve tradurre i documenti in atti concreti circa l’amministrazione dei sacramenti, la partecipazione alle processioni e alle pratiche di religiosità popolare, l’adesione alle confraternite e alle organizzazioni cristiane ( le Chiese di Calabria lo hanno fatto con le indicazioni pratiche emanate il 15 settembre 2021) . Deve dire ai mafiosi che non si può essere ad un tempo credenti, addirittura invocando il nome di Dio prima di compiere un assassinio, e per il resto seguire da bravi picciotti regole e liturgia dell’organizzazione mafiosa. La Chiesa, ancora, deve avvertire il dovere di impegnarsi a formare sacerdoti con la schiena dritta, senza fuggire dinanzi ai pericoli ed alle prepotenze, come testimoniò quel martire laico che fu Giorgio Ambrosoli: «Qualunque cosa accada, io andrò fino in fondo: serve formare uomini con valori alti e con il piacere dell'onestà».

Esiste un esempio da seguire in tutto ciò. Di più: un metodo. Quello incarnato proprio da padre Puglisi, uno che non contrastava le cosche con altri strumenti che non fossero il Vangelo, alla luce del sole, per educare persino i mafiosi ed i loro figli alla legalità, al rispetto reciproco, ai valori dello studio e della cultura. Un’utopia, forse. Di certo, un invito al dialogo, come quando dopo le molotov lanciate contro i furgoni della ditta che stava restaurando la chiesa di san Gaetano, dall’altare disse: «Perché non volete che i vostri bambini vengano a me? Ricordate: chi usa la violenza non è un uomo. Noi chiediamo a chi ci ostacola di riappropriarsi della umanità ed io sono disponibile ad accompagnarli in questo cammino».

Questo il prete che i fratelli Graviano – le cui figure sono ritornate prepotentemente al centro delle cronache proprio nelle ore dell’arresto di Messina Denaro - decisero di togliere di mezzo. Dava fastidio, con quel suo Vangelo, perché portando Cristo al fianco dei poveri e dei giovani senza lavoro aveva già sconfitto i mammasantissima con la forza che si rivela in chi, invece che il potere, sceglie l’impotenza della croce salvifica. E così facendo toglie ogni alibi a chi lo condanna a morte: non è cristianesimo la mafia che avversa il Vangelo. Non è fede in Dio l’ostentazione di santini e sacramenti radicati nel sacrificio degli innocenti. È altro, è qualcosa di opposto, di profondamente avverso: è sacralità capovolta, ateismo piegato al denaro al potere.

È stata e continua ad essere, quella di Puglisi, la testimonianza di un sacerdote che ha ancora tanto da dare, attraverso i lineamenti della sua pastorale: la povertà personale come scelta di vita; missioni popolari tra la gente; l’analisi dei bisogni delle persone; la moralizzazione delle feste popolari; la corresponsabilità pastorale dei laici; momenti civici per far sentire la voce dell’intera comunità su particolari temi sociali; la formazione alle celebrazioni sacramentali. È stata, e non smetterà mai d’essere, il dono di un prete con le suole delle scarpe forate per il suo continuo camminare tra la gente fino a notte, come l’ultimo giorno, per portare in mezzo ai poveri e agli ultimi una Chiesa povera di beni, ma ricca d’amore liberante, seme di speranza nella primavera della vita.

P. Vincenzo Bertolone S.d.P.

Arcivescovo Emerito di Catanzaro - Squillace                                    

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