(Foto: I fratelli Michele e Salvatore Miani)
Un racconto vero, toccante, da leggere tutto d'un fiato - Ero partito. Dopo che arrivammo a Sibari, presa la coincidenza, proseguimmo il viaggio verso Nocera Inferiore, dove ci saremmo fermati, affinché io conoscessi mio padre. Successivamente avremmo raggiunto Napoli, Il treno andava monotono per la sua destinazione, io scosso per la partenza, per i saluti e dal sonno, non goduto nella notata, poiché, con il pensiero della partenza, non ero riuscito a dormire, mi sedetti su una panca della carrozza e lentamente con il ritmo costante del treno che mi fece da ninna nanna, mi addormentai. Mio Zio si era seduto accanto a me, mi lasciò dormire, senza parlare, semplicemente guardandomi. Forse pensava alla nuova vita che mi aspettava e che neanche lui veramente aveva compreso del tutto. Era certo solo di una cosa, non avrei fatto lo zappatore, come lo faceva lui: quel mestiere a lui non piaceva, gli era odioso.
Non gli garbava di andare a giornata da chicchessia, senza un lavoro fisso e sicuro, che non lo mettesse alla mercé di un caporale, il quale, sul lavoro, era peggio di un aguzzino, schiavista, Barabba pronto a richiamare, mai contento, sempre a ricordare che chi non lavorava, come diceva: con prontezza, costanza e forza, non faceva per lui, e, che quindi, alla prossima chiamata, non l’avrebbe certamente scelto dal mare di zappatori in attesa la sera in piazza.
Dopo circa due ore di viaggio, durante il quale il treno fermava ad ogni stazione, con un gran sferragliare di freni e ruote sui binari, arrivammo a Metaponto. Mio zio mi svegliò. Scendemmo, senza fretta, con i bagagli che avevamo con noi, portandoci direttamente sul binario, ove era pronto, un altro convoglio, che ci avrebbe portato direttamente alla stazione di Nocera Inferiore, dove era programmata la nostra fermata per uno, due giorni prima di ripartire per la grande città di Napoli. Questo convoglio era un treno diretto, che non si fermava su tutte le stazioni, alcune, di poca importanza, le saltava.
(Foto: Michele con Franco Arcieri e il pittore Alfano)
Dopo un breve tempo, il treno si mise in moto. Intanto erano saliti nella carrozza varie persone che si accomodarono anche loro sulle panche: la carrozza, ove eravamo saliti, era una vecchia carrozza di terza classe, non proprio comoda, ma, a me, le panche non davano fastidio, avevo scelto un posto vicino ad un finestrino per vedere la campagna, gli alberi, i paesini, che sembravano scorrere verso il treno. Non mi importava la classe della carrozza se di prima classe, di seconda classe o di terza, La differenza, di comodità o di lusso, d’altronde non la consideravo. All’epoca non riuscivo, per l’età, ad interessarmi alle differenza di classe e di ceto, né a dargli valore, e, tanto meno, mi interessava pensare alla differente ricchezza delle persone. Non ero invidioso nei confronti di coloro che avevano più denari da poter spendere e, che, si permettevano delle comodità e dei lussi per distinguersi dalla massa, o per altre esigenze proprie, solo perché boriosi di sentirsi diversi, o, come si è portato a dire, più comunemente, di mostrare l’appartenenza ad altro ceto, ad altra casta e dimostrarlo spedendo più largamente. A me interessava di più la libertà, il gioco per la campagna, le scoperte che giorno dopo giorno facevo nei miei giochi.
La differenza, che intuivo e che si palesava, nel rapporto con le persone, era quella relativa alla appartenenza a famiglie più agiate, con più o meno ricchezza e che più facilmente e meglio lo facevano capire nello spendere e nel vestire. Chi aveva più denari, si poteva comprare più spesso e, in special modo nelle festività di grido, un vestito nuovo, delle scarpe ben rifinite di capretto, fatte a mano dal miglior calzolaio. Chi era più facoltoso, godeva della possibilità di avere un bel cavallo, possedere una quantità di terreno con alberi di frutta, olivi in quantità, un orto ben disposto lungo il fiume Ejano, un maiale da uccidere nel mese di dicembre, avere una casa grande con la luce elettrica. All’epoca nelle maggior parte delle case di Cassano si aveva ancora l’energia elettrica con contratti tipo forfait, in servizio solo la sera e la notte per il costo e la penuria di energia elettrica. D’altronde per le casse del comune, che erano anch’esse povere, chi usciva la sera, per illuminare il cammino da percorrere, si serviva di lanterne ad olio, non vi era una buona illuminazione stradale. Nelle case, pochi avevano servizi con impianti idrici, l’acqua corrente in abbondanza, senza essere costretto a uscire per strada, per andare alla fontana pubblica, con l’orciuolo per prenderla, sia con il caldo estivo, o, con la tramontana e la pioggia invernale.
Poche famiglie agiate avevano una macchina. Chi poteva avere a servizio donne e uomini, tiranneggiava sulla paga e sull’accordare a queste persone del lavoro con una certa continuità, specie se esse erano più servili.
Certamente, mi dava fastidio, considerare che mia nonna, doveva sobbarcarsi di lavoro dalla mattina alla sera tardi, ed avere, come paga, pochi spiccioli per tirare avanti la famigliola, con noi due fratelli che l’avevamo arricchita nel numero. In quel tempo, ciò era sopportato ed accettato da me, come qualcosa di naturale, quasi fosse un fatto storico e assodato per l’uso e l’abitudine vecchia di secoli. La ritenevo una tirannia d’ordine biologico. A differenza dei ceti agiati, la massa doveva arrangiarsi come meglio poteva, senza nessuna possibilità di cambio. Chi era povero viveva da tale, difficilmente diveniva ricco, mentre qualcuno che era ricco o aveva un buon reddito, perché commerciante, impiegato, professionista o padrone di terreni, viveva con più risorse, poteva, far studiare i figli, inviandoli anche fuori paese, viveva la sua vita sociale con più libertà di movimento, poteva frequentare ed appartenere a circoli chiusi che snobbavano i più poveri. Nel paese esisteva la suddivisione dei ceti: il contadino faceva amicizia con il suo pari, lo zappatore con il manovale a giornata; un povero sposava di solito una povera, così faceva e aveva le sue relazioni l’impiegato, il professionista; lo studente. Questi comportamenti differenziati e queste diverse possibilità di vivere, che non sapevo capire e di difficile accettazione, che altri non mi potevano spiegare con una terminologia adatta alla mia età, mi erano si odiose, le consideravo assurde, ma in realtà mi toccavano solo marginalmente: solo al momento in cui dovevo cambiare le mie scarpe, o, dovevo cambiare i vestiti perché ormai stretti per l’età che cresceva. Tale accettazione nel tempo, scomparve dalla mia mente, le differenze di classe mi divennero assurde e insopportabili.
A Metaponto sulla nostra carrozza salì una signorina, che si sedette proprio di fronte a me. Salutò gli altri passeggeri e a me rivolse un sorriso ed un “ciao” cordiale e caldo. Dopo un po’ incominciò a parlare con i passeggeri vicini, parlò con mio zio, chiedendo dove era diretto, poi chiese di me e mio zio spiegò che ero suo nipote.
Guardandomi sorridendo mi chiese” Come ti chiami?”
Io vergognoso, dissi “Michele“, con un filo di voce. Di solito al paese, nessuno chiedeva come mi chiamavo, giacché, tutti mi conoscevano per nome, o per, il nipote di “zi Cristina”, mia nonna, che per me era “mamamma”, “mamma grande”. Il termine “Zi” abbreviativo di zia, come era uso al paese, veniva adoperato e tutt’ora ancora lo è, per chiamare e nominare le persone di una certa età, in rispetto degli anni e per l’esperienza di vita. Comunque, io ero di carattere un po’ ombroso e, non parlavo volentieri con persone che non conoscevo, però, se queste mi erano simpatiche ed entravano nel mio io, ero propenso a conversare più liberamente e più diffusamente.
“Tu dove devi andare?”.
Risposi un po’ nervoso, proprio perché non ero abituato, come sopra detto, a parlare con persone sconosciute “a Napoli devo andare, prima però mi fermerò a Nocera Inferiore, dove devo conoscere mio padre”.
“Allora farai un lungo viaggio” riprese incurante del mio modo acerbo di rispondere.
“Si” dissi “ci vuole molto tempo perché Napoli è lontanissimo dal paese mio”.
“Perché vai a Nocera Inferiore per conoscere tuo padre? Non lo conosci già?. Perché dopo vai a Napoli? Hai dei parenti che vi abitano?”
(Foto: Michele con l'amico Peppino Costantino, 1958)
Sorrisi per la domanda che mi sembrava sciocca.“Noo!. I parenti miei sono tutti nel mio paese, mio fratello, la nonna, le zie, gli zii e miei cugini, tutti abitano nel paese mio. D’estate, quando fa caldo, però tutti stanno in campagna”.Ed un pò vergognoso “Vado a conoscere mio padre perché non l’ho mai visto”.
La signorina chiese delucidazioni a mio zio sulla mia strana risposta di andare a conoscere mio padre. I due, parlarono sotto voce per qualche minuto, poi lei assorbita la spiegazione da parte di zio Antonio, ma, colpita da quello che aveva udito, e, con un tono di voce più tenero, riprese il discorso interrotto.
“E di quale paese sei?”
Risposi velocemente ”Cassano. Si chiama Cassano Jonio, è un bel paese con tante case con i tetti rossi, tante campagne, tanti alberi e c’è anche un fiume, un campanile, tante chiese. A Pasqua si fa la processione delle “varette” (stazioni della via crucis). A settembre vi è una grande fiera”.
Mi fece altre domande ancora: mi passò il momento di nervoso. Lei mi piaceva, aveva un bel viso, una voce dolce accattivante, era snella, i cappelli sciolti neri, come gli occhi, portava un basco per cappello di color rosso, un vestito azzurro che la rendevano più snella di quanto fosse, una borsetta di pelle, nera, grande. Mi era simpatica! Presi un pò di coraggio, così, con tranquillità, feci a lei qualche domanda.
“Tu come ti chiami?”
“Tu dove vai?”
Mio zio, che ascoltava in silenzio, intervenne subito: “Michele non fare lo scostumato non si da il tu alle persone più grandi”.
“Lasciatelo parlare non vi preoccupate “ Lo riprese la signorina.
Senza considerare la mia età mi rispose “Mi chiamo Rosaria. Vado in un paese chiamato Sicignano degli Alburni, dove insegno ai ragazzi come te”.
“Tu allora sei maestra... Che cosa insegni?.. Insegni l’aritmetica, le tabelline, fai imparare a scrivere e a leggere? Fai fare il dettato?.. Tu li castighi i ragazzi che non studiano?... Li picchi con la riga o con la frusta?” chiesi tutto d’un fiato.
Sorridendo “Oh, quante domande! Io insegno tutto quello che insegnano in una scuola dove vanno i ragazzi come te. Come tutti gli insegnanti, voglio che i miei alunni studino, imparino volentieri, qualche volta anch’io strillo, però non li castigo, né tanto meno li picchio”. sempre sorridendo “di la verità non vai volentieri a scuola. Secondo me,..tu non studi tanto, eh?...”.
La signorina mi diventò ancora più simpatica, ed io, anche se colpito dalla verità sui miei studi, non mi scomposi, non diventai rosso, né mi vergognai e risposi in maniera veritiera.”Sai, io a scuola non vado volentieri a me piace andare per le campagne ad udire le cicale, i grilli, gli uccelli, essere libero, andare al fiume a divertirmi, anziché stare tanto tempo chiuso in classe. I maestri quando mi strillano, mi castigano e mi picchiano, non mi piacciono, per cui, se riesco, la mattina faccio a meno di entrare in classe, anche se, già so, che, il giorno successivo, mi aspetta il castigo o le rigate sulle mani, che mi fanno tanto male”.
Continuammo a parlare mentre il treno continuava la sua corsa. Passammo davanti le stazioni di Bernalda, Pisticci, Ferrandina, Salandra-Grottole, Grassano, Gareg-tricarico, Calciano, su alcune di loro il treno fermò, altre le superò rallentando appena la velocità. Intanto, la signorina Rosaria, in un momento di pausa, del nostro chiacchierare, prese la borsetta, ne tirò fuori un involtino, lo scartocciò e ne venne fuori un panino ripieno. Ci invitò “volete favorire?”. Mio zio rispose, con un no e ringraziò, mentre io non dissi nulla. Notando il mio silenzio si rivolse a me: “Michele vuoi un po’ del mio panino”. Io per quanto non avessi fame, per la curiosità e per la gentilezza nei miei confronti risposi: “Si un poco”. La maestrina, divise il panino, me ne dette una parte. Il panino era ripieno di formaggio e di un strano salame. Ne mangiai un boccone, aveva un sapore delizioso. Chiesi cosa fosse e lei mi spiegò che, quello che io chiamavo salame, era mortadella, che, disse lei “Certamente non si usa nel tuo paese, però ha un sapore straordinario e delicato”. Effettivamente il sapore era straordinario, diverso dalla salciccia o dalla soppressata che si usava a Cassano. In seguito, nel tempo, mangiai dell’altra mortadella che mi piacque e mi piace ancora, però quel sapore delicato, delizioso, che assaporai in quella occasione non sono riuscito più a gustarlo: oggi ancora ogni tanto mi ritorna nella mente sia il gusto, che il profumo. Certamente, oltre al sapore reale, nel mio ricordo vi è la memoria della gentilezza con la quale mi fu offerto quel pezzo di panino, un cortesia senza lucro e senza fronzoli, ma, dettata forse, da un animo pieno d’amore per il mio essere un ragazzo spontaneo.
Giunto il treno a Sicignano, la signorina ci salutò. Diede la mano a mio zio. Mi baciò sulla fronte, mi fece gli auguri di buon viaggio. Io mi affacciai dal finestrino e, quando lei scese, la salutai gridando: “Ciao, ciao, ciao maestra”. Quella donna mi piaceva, mi era entrata nel cuore per il modo di parlare. Mi era simpatica per il vestito colore azzurro, il basco rosso e per la gentilezza con cui mi aveva trattato, a differenza della maestra dell’ultimo anno frequentato alla scuola del mio paese.
(Foto: Michele con Franco Vuoto,1960, Venerdì Santo)
Quando vidi scomparire la signorina dalla mia vista, lentamente mi rimisi a sedere sulla panca mentre il treno ripigliava la sua corsa. Era stato un viaggio, sino a Sicignano, che mi aveva portato su il morale, mi stava tornando il mio fare sbarazzino: questo era il frutto di un po’ di simpatia, di gentilezza, di bontà. Se ne parlo ancora, è perché oggi, dopo anni, il ricordo ritorna ancora vivo, mi è caro e resta nella memoria: fu quasi un innamoramento. La voce calda, la gonna azzurra, il basco rosso, i capelli neri, come gli occhi neri e vivi, il nome per me inusuale Rosaria, mi colpirono positivamente.
Arrivammo a Nocera Inferiore intorno alle 13.30, dopo essere passati per Salerno, dove moltissima parte dei viaggiatori, erano scesi sparpagliandosi per le panchine dei binari per raggiungere l’uscita della stazione.
Prima che il treno fermasse mio zio preparò le valigie, mi disse di andare dietro di lui, così andammo vicino un sportello, e, come fermò il convoglio, scendemmo veloci e ci avviammo verso l’uscita della stazione. Mio zio, anche se era già stato a Nocera, chiese informazioni, e indicazioni, su quella che era la strada più facile e breve per raggiungere il manicomio consortile, avutole ci incamminammo e, dopo circa una mezz’ora, eravamo all’ingresso del fabbricato dell’ospedale consortile psichiatrico Vittorio Emanuele 2°.
Lo zio chiese di mio padre, restammo in attesa di poter accedere al padiglione ove era ricoverato. Io ero stanco dal cammino, ma, nel contempo ero contento, curioso ed un po’ agitato per la novità di vedere, e conoscere finalmente mio padre. Durante il viaggio avevo cercato con la fantasia di rappresentarmelo, e, la faccenda, se così possiamo definirla, mi sembrava magica, mentre il desiderio aumentava nel passare del tempo. Stavo seduto su uno scanno, in silenzio ad immaginare la sua figura, a pensare cosa mi avrebbe detto, ed io cosa gli avrei detto. Era la prima volta che lo avrei visto, ero terribilmente commosso e nervoso. Immaginavo: figura, parole, domande e mille altre cose che passavano leste per la mia mente di ragazzo. Dopo qualche minuto, un sorvegliante ci indicò il padiglione ed il piano ove era ricoverato mio padre, dicendoci che, giunti alla porta dei locali, dovevamo bussare, nominare il nome dell’ammalato e ci avrebbero fatto entrare in una saletta, ove avremmo potuto incontrare la persona che cercavamo.
Uscimmo dalla portineria, svoltammo a destra , sotto un porticato, trovammo una scala che portava ai piani superiori, noi dovevamo andare all’ultimo piano. Giunti al piano bussammo e, nell’attesa, lo zio, che era stato già a far visita a mio padre, mi disse sottovoce “ Mi raccomando, quando entriamo non essere curioso, non guardare troppo le persone, non ti impressionare per quel che vedi, non avere paura. Quando tuo padre sarà di fronte a noi, tu salutalo, abbraccialo, bacialo non piangere”. Io, che ero commosso ed interdetto, perché, per quelle scale, avevo notato tante facce che mi sembravano strane e mi guardavano, in un certo modo nuovo, con curiosità, anche se rassicurato dalle parole di mio zio, avevo timore in ragione di quello che in paese avevo sentito sui matti che erano ricoverati in questi ospedali. Avevo paura. Quando entrammo, ci fecero accomodare su delle seggiole e stemmo in attesa anche qui, nel frattempo passavano davanti a noi infermieri, medici, passò anche un malato, che sembrava alquanto giovane, accompagnato sottobraccio da due infermieri. Questo uomo aveva, indosso una lunga camicia, le braccia erano tirate indietro da due maniche lunghe, legate dietro la schiena, il poveretto si strattonava, diceva alcune parole ad alta voce che io non comprendevo, mi misi paura e mi accostai al fianco di mio zio, tremando. Mio zio mi ripeté di stare calmo, di non impressionarmi. Nel mentre che parlava, si avvicinò un infermiere, ci disse di seguirlo. Entrammo in una stanzetta piccola, al centro vi era un tavolo rettangolare, due panche senza schienale sui due lati lunghi, il tavolo di legno era liso, ma non lucido. L’infermiere ci disse di sedere e di attendere. In questa posizione aspettammo pochi minuti, poi dalla porta entrò un altro infermiere che accompagnava un uomo: era mio padre. Lo vedevo la prima volta. La testa era rasata a zero, la barba rasata, aveva un vestito di panno grigio, due scarpe prive di stringhe di pelle ruvida, senza calze, non aveva la cintura ai pantaloni, questi, si reggevano perché stretti in vita, sembrava alto, era magrissimo. Restai fermo impalato senza parola. Lo guardavo muto. Timoroso di avvicinarmi. Ero emozionatissimo. Poi mio zio andò verso il fratello, lo abbracciò, lo baciò, con le lacrime agli occhi. Gli disse “Francè!..| Questo è tuo figlio Michele” e rivolto a me disse solo “Lui è tuo padre”.
Io che nello stesso tempo mi ero alzato, senza muovermi, impacciato lo guardavo. Mio zio allora, mi spinse verso mio padre “Abbraccialo,… abbraccialo” ripeté “E’ tuo padre“. Mi avvicinai l’abbracciai, mentre alcune lacrime mi si fermarono negli occhi senza scendere sulle guancie, ma non dissi nulla. Restai in silenzio, mi sentivo smarrito. Lo zio parlava con il fratello, raccontava di me, di mia mamma, della madre, di Salvatore mio fratello che era rimasto al paese, del fratello di mio padre Giuseppe e della sorella Maria. Mio padre mi guardava con un sorriso un po’ vago, quasi vuoto, nebbioso. Ricordo che non mi disse nulla. Nella sua mente sembrava che non vi erano ricordi, vi era un fumo denso, scuro, era sterpaglia che ardeva senza fiamma, senza strepitii. Io avevo dieci anni, ed erano dieci anni che lui non mi vedeva, notavo che non mostrava amore, né desiderio di accarezzarmi; per lui ero un estraneo, come lui lo era per me. Anche se era duro capire, ma era la logica degli accadimenti: mi aveva visto solo nascere; la sua malattia aveva prodotto il resto; era impossibile che io potessi ricordargli qualcosa, qualcuno, dargli un riferimento costruttivo del tempo passato. Sembrava che la legge del sangue non ci avvicinava. Un cerchio forzato e continuo gli serrava la testa, il cervello intero ove i pensieri non trovavano discontinuità, sbocchi, varchi per poter uscire. Ci fermammo in visita. Stemmo insieme per due ore, io non dissi parola a lui, lui non mi parlò. Mio zio gli parlava, ma notavo che mio padre era assente, rispondeva a monosillabi, su qualche parola rideva con la mente lontana, vuota, senza anima. Mio zio gli parlò anche di mia madre. Lui domandò più volte perché non era venuta, dove stava, che faceva, al che lo zio rispondeva che Saletta sua moglie, mia mamma era morta da anni, ma lui rideva sottilmente quasi sornione, per dire che non lo potevano imbrogliare. Lui sapeva, intuiva e capiva, che dietro il discorso vi era, una ragione oscura, arcana, voluta con la quale venivano dette le parole, le frasi, come se fossero dette per nascondere cose, fatti, accaduti, veri: noncurante faceva capire ed intendere che tutto era falso; che lui conosceva la verità vera dei fatti. L’abbozzo al riso spiegava e diceva che non era possibile che lei era morta. Lui raccontò che la moglie la vedeva ogni giorno passare per la strada, senza salutarlo, non lo guardava non gli faceva un gesto d’amicizia. Mi accorsi che mio padre era diverso dagli altri uomini: era un uomo svanito, non aveva ricordi. Io lo guardavo non riuscivo a pensarlo, a guardarlo come padre. Mi dispiaceva. Mi rodevo l’animo, ma, aveva ragione lui, non poteva ricordare quello che non aveva vissuto, non poteva far emergere dalla sua testa svanita la sua vita, i suoi umori, il suo amore per la moglie, il desiderio di aver voluto dei figli, di aver voluto crescerli insieme alla sua donna, di aver voluto invecchiare con mia madre, con l’amore con cui l’aveva desiderata e sposata. La sua fantasia della visione di mia madre, in quel momento, mi aprì gli occhi sulla reale sua malattia e sulla natura della stessa, che non avevo ben compreso ancora prima, dopo la tristissima notizia che giunse a mia nonna, quando si seppe che lui era ricoverato in manicomio a Napoli, per la quale lei piangeva e strillava per la rabbia e l’impotenza. Io in quel momento più forte maledii la guerra che lo aveva portato lontano da Cassano, maledii chi lo aveva costretto a partire, maledii la sua malattia, maledii la morte della sua donna: mia madre. Maledii il mondo intero, maledii la sua e la mia sfortuna, maledii il destino che su di lui si era accanito, senza alcuna pietà, distruggendogli la mente e l’animo. Finì la visita, io restai con l‘amaro in bocca. Persi la speranza che mi aveva condotto la. Ero fiducioso di poter abbracciare il padre che mai avevo conosciuto e che cercavo e ora, nei fatti, mi era lontano, in un mondo da cui ero escluso, come lo erano tutti i miei: mio fratello, i miei zii, la nonna. Pensai che mai mi avrebbe accompagnato nelle campagne, a santa Venere, nelle piazze del paese, mai mi avrebbe detto parole dolci, mai mi avrebbe fatto qualche carezza, avrebbe stretto la mia mano, accompagnandola a scrivere sui miei quaderni pieni di scarabocchi, che avrei voluto più puliti, senza macchie e privi di errori, che erano orrori. Avevo perso la speranza inoltre, di avere chi nei miei momenti più tristi, mi avrebbe detto qualche parola di incitamento e di incoraggiamento per affrontare la vita, quella dura, che si profilava ormai chiara alla mia età. Non avrei avuto un suo conforto, né un riferimento per vedere il sole dopo una caduta. Mi sentii maggiormente solo, abbandonato, smarrito, come un naufrago che non trova al suo nuotare un punto dove fermare la mano e risalire su di una scogliera aspra ma ferma.
Uscii dalla stanza muto, deluso nella mia aspettativa, avevo vergogna di piangere, ma dopo la porta di quella stanza, la gola si strinse, e, le lacrime, scesero per il viso in modo copioso e continuo, accompagnate da singhiozzi che cercai forzatamente di mitigare nell’intensità sonora. Io ero sconvolto. Mio zio prese un fazzoletto dalla tasca, mi asciugò le lacrime e disse “soffiati forte il naso”, nulla più, ma, anche lui piangeva triste come me. Ci avviammo verso l’uscita del nosocomio come due che avevano preso delle randellate che facevano male non solo al corpo ma, anche al cuore.
Michele Miani