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Il Lager del mio amico polacco

Elie_Wiesel_age_15.jpg« Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai. 
»  (Elie Wiesel, tratto da "La notte". Wiesel  ebreo rumeno, fu rinchiuso ad Auschwitz all'età di 16 anni - nella foto aveva 15 anni)

Quando lavoravo all’estero (in Svizzera) mi è capitato di avere come compagni di lavoro un ingegnere polacco di Cracovia ed un collega (geometra) ceco di Brno. Il primo quasi sessantenne era riuscito a fuggire dalla Polonia comunista da solo, lasciando una figlia di 20 anni studentessa, il secondo, invece, aveva approfittato di un viaggio di vacanza in occidente per non rientrare più, ma aveva con sè moglie e figli. L’ing. Nawroztky, il polacco, era una persona di grande cultura, parlava correntemente 4 lingue ed era anche il mio capo, allora  avevo 27 anni e svolgevo il lavoro di disegnatore tecnico. Ogni tanto chiedevo ad ambedue come si viveva dalle loro parti, ma ricevevo risposte timide e impacciate, quasi come se avessero vergogna o responsabilità di quello che succedeva nei rispettivi paesi d’origine. Un giorno, avevo letto da poco “L’arcipelago gulag” dello scrittore russo Aleksandr Solzenicyn e prendendo spunto da questa lettura, cominciai a parlare di deportazioni di massa e di lager.

Il Nawroztky a poco a poco cominciò ad aprirsi incalzato dalle mie domande anche un po’ ingenue e mi raccontò della sua vita di studente, della guerra contro i tedeschi da giovane ufficiale di cavalleria e della successiva occupazione russa.

Quel giorno non insistetti molto, ma trassi spunto, nei giorni successivi, da questo spiraglio che mi si offriva per chiedere ancora, approfittando di ogni momento libero: della pausa caffè, del pranzo e poi finii coll’andare a trovarlo a casa sua. Viveva in una stanzetta modesta con servizi, non si poteva permettere di più, il suo status di rifugiato politico gli aveva permesso di lavorare, ma, seppur uomo di grandi qualità e capacità professionali, percepiva uno stipendio che era a malapena la metà del mio. Mi raccontò che era nato in un paesino a 50 km da Cracovia, di cui non ricordo il nome, da una famiglia di contadini. I genitori, cattolici e molto pii, lo fecero studiare fino alla laurea e subito dopo prese a lavorare in uno studio tecnico di quella città.

Quando i tedeschi occuparono la Polonia rientrò nei ranghi dell’esercito e partecipò ad alcuni scontri, ma la resistenza durò pochissimo, la Wermacht fece centinaia di migliaia di prigionieri e gli ufficiali furono passati per le armi freddamente, col classico colpo alla nuca, mi raccontò di aver assistito alla morte di un suo cugino e di  tanti altri suoi colleghi. Con un piccolo gruppo, durante un trasferimento in un campo di lavoro, riuscì a fuggire nei boschi ed a rimanere nascosto per qualche tempo. Dopo svariate peripezie giunse a Varsavia dove fu accolto nella canonica di una chiesa e cominciò a lavorare clandestinamente in favore dei propri connazionali. Fu purtroppo sorpreso dalle SS, deportato in Germania e trasferito nel lager di Dachau a pochi chilometri da Monaco. Grazie alla conoscenza di diverse lingue fra cui l’inglese e il francese, fu utilizzato come interprete ed evitò la morte, ma vide morire in modo spietato, tra fucilazioni di massa e gas, migliaia di persone non solo ebrei, ma francesi, russi, greci e tanti, tanti militari italiani sorpresi dopo l’armistizio dell’8 settembre. Scusate per la lungaggine del mio ricordo, ma mi sembra doveroso ricordare anche i tanti innocenti, non ebrei, che furono massacrati dalla ferocia nazista.

L’arrivo delle forze alleate gli permise poi di ritornare in Patria dove pensava di poter riabbracciare i propri cari, speranza vana, la sua famiglia era stata completamente sterminata non dai tedeschi ma dall’armata sovietica, e così rimase intrappolato in una finta libertà comunista dalla quale riuscì solo dopo molti anni a fuggire.

Dopo queste lunghe chiacchierate, fra di noi si era creato un feeling particolare, lo invitavo spesso a casa mia e lui  contraccambiava come poteva regalandomi dell’ottima vodka o del tabacco da pipa che si faceva mandare da un suo amico che viveva in Svezia. Un giorno mi chiese se potevo accompagnarlo in macchina a fare un viaggio poco lontano, accettai di buon grado e la domenica successiva andammo a visitare Dachau.

dachau.jpgAnche lì sul cancello d’ingresso campeggiava la scritta “Arbeit macht frei”: Il lavoro rende liberi, “liberi di morire” pensai fra me e me; l’amico Nawroztky, osservava tutto senza parlare, non ebbi il coraggio di chiedere nulla, la guida ci portò a vedere i luoghi del martirio, lessi qualche nome sui registri delle vittime, cercando tra tanti nomi a volte illeggibili, quelli italiani e lessi nomi familiari già sentiti, altri sconosciuti, e le loro età: 20 anni, 21, 26, 15……. un’emozione profonda mi assalì e cominciai lentamente a singhiozzare,  mentre immaginavo le file di poveretti mal nutriti lungo i cortili ben allineati del Lager, sospinti verso le camere a gas. Nawroztky era impassibile mi cinse le spalle e mi accompagnò fuori, trovammo un piccolo bar, sorseggiamo un caffè alla panna e dopo un lungo silenzio mi disse: “Caro amico, ammiro la tua sensibilità, ma ora non è più  tempo di lacrime, ora bisogna fare in modo che nulla venga dimenticato, perché l’uomo rimane sempre una bestia sanguinaria”.

La nostra amicizia  divenne più salda, la grande differenza d’età che c’era fra di noi sembrava non esistere, andavamo insieme a fare footing sul lungo-lago, si giocava a tennis e un giorno d’improvviso mi chiese se mi sarebbe piaciuto andare in Polonia, lo guardai incuriosito, risposi che sì, certamente avrei fatto volentieri un viaggio per visitare la sua terra. Lui, purtroppo, non poteva andarci, sarebbe stato arrestato, mi propose senza giri di parole di andare a Cracovia, dove viveva la figlia e portarle del danaro, senza pensarci due volte accettai. Andai diverse volte nella bella città di Cracovia, la figlia del mio amico mi fece conoscere Stephan, il suo ragazzo, studente e ottimo chitarrista e tanti altri giovani più o meno della mia età con alcuni dei quali ancora oggi sono in contatto epistolare.

Andai a visitare con i miei nuovi amici anche il campo di sterminio di Auschwitz e riprovai anche lì le stesse profonde emozioni, che mi avevano sconvolto a Dachau, ma questa volta riuscii a dominarle, ricordando il monito dell’amico  Nawrotzky.

Ho pensato di rendervi partecipi di queste mie esperienze, nella speranza di aver portato anch’io il mio modesto contributo perché nulla sia dimenticato. Grazie per la vostra attenzione.

Antonio Michele Cavallaro

(Le ultime due foto sono tratte da diapositive scattate da A.M.Cavallaro durante la visita a Dachau)

 

 

 

 

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