Mammana,fìmmina destra e accabadora: tre figure di donne da rispettare e… da temere
La mammana, la fìmmina destra e l’accabadora: fra loro vi è un filo rosso che unisce queste figure di donne, le quali fino a 60 -70 anni fa svolgevano un’opera importante, opera meritoria specialmente nelle piccole comunità e nelle zone di montagna, in sostituzione del medico condotto o dell’ostetrica che esercitavano sia la libera professione o in alcuni casi dipendenti del comune di residenza. In questa ultima ipotesi, sia il medico che l’ostetrica, specialmente nei comuni disagiati sotto il profilo delle comunicazioni e dei trasporti (mancavano le corse degli autobus di linea) i predetti professionisti percepivano, tra l’altro, la c.d. “indennità di cavalcatura”.
L’accabadora era -fino a qualche decennio fa- una figura di donna matura, con tanta esperienza, che era rispettata e temuta specialmente in determinate comunità della Sardegna.
La mammana. Questo temine risulterà del tutto sconosciuto specialmente ai giovani intorno ai 40-45 anni, in quanto queste persone sono venute alla luce in ospedali o cliniche private, perché le rispettive mamme hanno partorito nei reparti di ginecologia e ostetricia, accompagnate dalle ostetriche di famiglie fino alla soglia del reparto, e poi affidate alle capo-sala e al personale sanitario in servizio.
Però la favola delle cicogna, appunto qualche decennio fa, era affidata alla mammana, una donna che col tempo, specialmente nelle piccole comunità, aveva acquisita una bravura dettata dall’esperienza, per aver assistito al partodi numerose donne; nei piccoli centri dove di mammana ce n’era una sola, tutti i neonati di un determinato periodo, diventavano suoi figli di spirito o figli dell’anima, come qualcuna era solito chiamarli.
Questa pratica del ricorso all’aiuto della mammana era diffuso specialmente nelle regioni dell’Italia meridionale all’epoca della civiltà contadina.
Mammana, quindi, era sinonimo di ostetrica o levatrice. Però la mammana ancora oggi, tra la popolazione adulta, o più precisamente anziana, è ricordata come una donna da rispettare -perché aiutava le creature a nascere- da temere perché aiutava anche a togliere la vita al nascituro. In particolare a casa della donna interessata si praticava l’aborto clandestino, con tecniche e attrezzi grossolani, che spesso provocavano emorragie per la donna che era rimasta incinta.
In quel periodo, specialmente per le donne appartenenti a famiglie povere, si faceva ricorso a queste pratiche grossolane e pericolose per la vita della donna malcapitata. Le classi sociali più abbienti e quindi più ricche, si rivolgevano a un medico compiacente, dimorante in altro paese e disposto a praticare l’aborto clandestino.
In tale circostanza si parlava di “cucchiaio d’oro” per il medico che chiedeva un corrispettivo troppo esoso, come se il feto fosse d’oro; lo stesso medico si impegnava anche alla più stretta riservatezza. Tutto ciò accadeva, ovviamente, prima dell’entrata in vigore della legge n. 194/1978 che consentiva l’aborto terapeutico in determinati casi previsti e disciplinati dalla legge.
La fìmmina destra, in dialetto calabrese, con le dovute varianti nella dizione delle singole comunità, era la donna che prestava la sua opera in ambito ostetrico soltanto alle partorienti e non praticava l’aborto clandestino. Era ritenuta una donna avveduta, pronta ad intervenire al bisogno, brava particolarmente nell’assistere le partorienti, dotata di accortezza, prudente e assennata, come una vera e propria professionista. Alcune che erano maldestre a tal punto che procuravano danni pressoché irreparabili, come ad esempio la lussazione (? congenita) dell’anca, come la definiva dopo molti anni, il medico che non aveva assistito al parto e giustificava la donna che all’occorrenza non era stata sufficientemente destra.
L’accabadora, invece, svolgeva un’assistenza che si potrebbe definire “bifronte”: l’una positiva, svolgendola funzione di levatrice, l’altra negativa, in cui praticava la morte pietosa, cioè l’odierna eutanasia.
La figura di quest’ultima è balzata all’attenzione dell’opinione pubblica italiana e non solo, con la pubblicazione del volume della scrittrice sarda Michela Murgia, Accabadora, e dal film L’ultima madre.
In Sardegna sia la figura di questa donna misteriosa sia l’attrezzo che impiegava nel praticare la morte del neonato, è diffusa nella cultura popolare a tal punto che in alcune feste del carnevale, gruppi mascherati indossano il costume dell’accabadora con in mano il martelletto di legno che serviva a finire il neonato con un colpo secco alla base del cranio.
L’accabadora andava sempre vestita di nero ed era colei che toglieva la vita al neonato con grave deformazione fisica, alla persona con malattia grave su richiesta dell’interessato o di un familiare.
Alcuni Sardi affermano che il tutto sia una favola, una invenzione vera e propria, ma così non è in quanto il personaggio che toglie la vita -in pratica l’eutanasia- è molto riservata e soltanto in pochissimi conoscono il suo nome e come avvicinarla. L’accabadora porta a compimento l’intervento definitivo con un martelletto di legno. Tale rituale viene rievocato in alcune manifestazioni carnascialesche sarde, con l’allestimento di veri e propri “gruppi mascherati organizzati”: i cittadini indossano una tunica nera, con guanti neri coprendosi il capo e il volto con un cappuccio altrettanto nero, impugnando un martelletto di legno.
A proposito del romanzo della Murgia,un anonimo ha osservato che “Il soggetto è interessante. Si mescolano tradizioni locali (sarde) e conflitti morali attuali (eutanasia). La storia è dura ma è sussurrata poeticamente. La scrittura è elegante”. Concordiamo con l’anonimo.
A proposito di tali pratiche, cosa succedeva a Cassano fino agli anni cinquanta del secolo scorso, o giù di lì?
Nel comune di Cassano, fino a quando si diffuse la cultura dell’assistenza ospedaliera anche per l’ostetricia, le nascite venivano assistite dalle mammane, come ben ricorderà qualche anziana nonna che rasenta le cento primavere.
Molto più difficile ricordare o raccontare qualche triste vicissitudine legata alla pratica della rudimentale eutanasia.
Cassano centro, sino a qualche decennio fa era il centro abitato più popolato, e quindi con maggiori casi di nascite da gestire; a questo punto non vuol dire che la mammana gestiva anche numerosi casi nelle funzioni dell’accabadora sarda.
Qualche mese fa a Cassano, trovandomi a parlare casualmente, del romanzo di Michela Murgia con un gruppo ristretto di amici - uomini e donne- il discorso scivolò sulla situazione a Cassano.
-Chissà se anche a Cassano si facevano queste cose-disse un uomo-però ritengo di no, o non ho saputo nulla prima di adesso.
-Per la verità -rispose una signora di circa 60 anni, guardandosi in giro- mia madre mi ha riferito che una volta la mammana (….), suggerì alla madre del neonato e alle donne di famiglia presenti, che forse sarebbe stato opportuno provocare la morte del neonato dicendo che era nato morto.
-Io non ci credo, rispose il marito della signora.
Alla fine del discorso, mentre gli amici di Cassano si guardavano attorno prima di intervenire nel colloquio, un’altra signora riferì che aveva ricevuto delle confidenze dalla propria madre, aggiungendo: “tal dei tali non ha subito la “dolce morte”, grazie all’opposizione dimostrata con fermezza da alcune donne di famiglia”.
Concludendo, la mammana, la fimmina destra, e l’accabadora facente funzioni, erano tre figure di donne che svolgevano un ruolo di “operatrici sociosanitarie” ante litteram, per l’opera di sussidiarietà svolta (nel parto) in mancanza del medico o dell’ostetrica; al contrario soltanto alcune svolgevano un’attività integrativa supplementare nel praticare la morte pietosa, detta oggi eutanasia.
Martino Zuccaro