Una storia bella e triste nei mitici anni '60. Musica rock, figli dei fiori, legami forti, amori intensi vissuti all'insegna della libertà, ma con grande dolcezza e perche no? Con pudore. (La redazione)
Quel giorno non ero andato a lavoro. Era una giornata stupenda, rarissima nella Svizzera interna di Novembre, il sole occhieggiante metteva in risalto i brillanti colori delleaiuole curatissime e piene di fiori poste in prossimità degli incroci. Mi ero alzato al solito orario, le sei e un quarto, le solite abluzioni, la macchinetta del caffè da lavare e da riempire mi aveva fatto rinunciare alla solità tazzina mattutina, la mia vecchia Ford Taunus era partita quasi subito dopo pochi scoppiettii, fermata veloce al bar italiano per l’espresso, un saluto, poche battute coi soliti avventori mattutini e poi via lungo la kantonstrasse alla volta della fabbrica distante pochi chilometri, accompagnato dalla voce di Ray Charles che cantava “Georgia on my mind” a tutto volume dal mangianastri stereo 8. Giunto a duecento metri dall’ingresso, fermai l’auto di botto, quasi preso da un raptus improvviso, guardai la fila di operai e impiegati che frettolosamente, sotto il sole che dominava ormai dalle colline circostanti, si avviava verso il grande cancello d’ingresso aldilà del quale si scomponeva nel grande cortile in altre file di uomini e donne che andavano verso i propri reparti: era l’inizio di una nuova giornata di lavoro.
La grande fabbrica assorbiva quella massa di gente come una spugna raccoglie le goccioline d’acqua sparse su una lastra di vetro, le compatta al suo interno le fa diventare un tutt’uno, ognuna perde la sua identità; stringendo poi la spugna nel pugno ne fuoriesce un ruscelletto col quale lavare meglio la superficie liscia, le gocce così perdono la loro graziosa rotondità, brillante e rispecchiante la luce e i colori circostanti, servono però a qualcosa di utile e quando hanno svolto il loro compito, ormai lordate e nere, con una nuova forte stretta della mano vengono scaricate nel secchio dove si perdono e confondono nel liquame lurido.
Quelle persone mi apparvero proprio così come le goccioline pulite e brillanti che venivano trasformate dalla fabbrica in una massa di gente senz’anima e senz’altro scopo che quello di essere funzionali al lavoro da uscirne abbrutite e distrutte nel corpo e nell’anima. La realtà non era drasticamente tragica fino a quel punto, ma in quel momento io la vedevo così.
Inserii la retromarcia, feci un’elegante inversione nel grande parcheggio e, imboccata l’autostrada, diressi la mia azzurra Ford dalle cromature scintillanti, con la prua verso la città. Dal mangianastri ora era il ritmo aggressivo di “The house is rockin’" di Stevie Ray Vaughan che mi faceva compagnia, guidavo con scioltezza, fischiettando il motivetto. Giunto in prossimità del lago, parcheggiai l’auto vicino allo Stadt-Theater e cominciai a passeggiare sul lungo-lago, osservando i cigni orgogliosi che nuotavano sgambettando graziosamente nell’acqua in cerca di cibo.
Fu proprio mentre lanciavo nell’acqua qualche briciola di una brioche acquistata in un chiosco che la vidi. Era seduta su una panchina, stretta in un cappottino color beige, con il nasino rosso e due occhietti lucenti di lacrime mal trattenute che spuntavano tra una sciarpa di lana e un baschetto messo di sbieco sulla testa. Piccola graziosa ragazza mora.
Non ci pensai due volte mi avvicinai sorridendo, le sedetti accanto, la guardai con dolcezza, le parlai, non ricordo cosa dissi, ma certamente dovetti essere molto convincente, perché si alzò e mi seguì docile e rinfrancata. Entrammo in un bar, prendemmo una bevanda calda, anche se c’era il sole, il freddo era secco e pungente, e mi raccontò la sua storia semplice e nient’affatto tragica, simile a quella di molti altri figli d’emigrati, vissuti fino a una certa età in Italia, magari presso i nonni a frequentare la scuola, poi, i genitori, resisi conto che il ritorno al paese non sarebbe stato possibile, decidono di ricongiungere la famiglia riprendendo i figli lasciati per anni in mani certamente amorevoli, ricolmati di doni nei fugaci giorni delle ferie, ma privati del calore, dell’affetto e soprattutto della guida ferma che solo i genitori possono dare.
Da adolescenti vengono immessi in una realtà completamente diversa, una scuola che parla una lingua ostica, dura, difficile, che diventa subito nemica, modi di vivere estranei, lontani anni luce dalla vita magari monotona ma semplice del paese quasi sempre del sud. Si finisce per integrarsi completamente nella cultura locale dimenticando il più presto possibile le proprie origini, o al contrario, si oppone un rifiuto netto e testardo a questo mondo nuovo, così freddo e arido soprattutto di sentimento e di emozioni, così appare almeno ai loro occhi e alla loro fragile anima, non avendo la maturità e il bagaglio d’esperienza e di cultura sufficienti per non perdere un equilibrio già compromesso dai lunghi anni della fanciullezza vissuta lontano dal nucleo familiare.
Elisa aveva optato per la seconda risoluzione, ormai diciottenne, non riusciva a inserirsi in quella nuova realtà, era stata costretta a frequentare una scuola di recupero per poter imparare la nuova lingua e lei, così brillante nella scuola italiana, diplomata alle magistrali con ottimi voti, quì faceva la figura della stupida e della semi-analfabeta.
Cercai di consolarla in qualche modo, del resto mi ero trovato, io pure, più o meno nella stessa situazione, anche se la mia era stata un scelta personale e non una necessità imposta da altri. La presi per mano, una mano piccola, delicata, diafana, quasi come si fa con una bambina e la condussi in giro per la città, museo, chiese, giardini, che non conosceva. A mezzogiorno mangiammo in un ristorantino sul lago, frequentato per lo più da giovani, che già conoscevo per averci fatto qualche serata d’intrattenimento con il mio gruppo, così si rinfrancò del tutto e mi apparve in tutta la sua innocente e fragile bellezza.
Parlammo, parlammo tanto, mi raccontò, le raccontai, ci guardammo, ridemmo. L’accompagnai vicino casa sua, prima che rientrassero i genitori, con la promessa che ci saremmo rivisti, ci scambiammo un bacio timido e imbarazzato come mai avrei immaginato alla mia età (29) e ritornai a casa. Più che una casa sembrava un rifugio, un monolocale tutto sommato gradevole, ma col disordine tipico degli uomini soli. Accesi il marantz e misi sul piatto del giradischi l’ultimo LP dei Bee Gees e cominciai a far pulizia e a mettere ordine, quasi come se avessi dovuto ricevere visite.
Passarono alcuni giorni, fui ripreso dal lavoro di giorno in fabbrica, dalle prove con i “The Hurricanes” il mio nuovo gruppo, dai corsi serali per adulti nei quali cercavo di insegnare a far di conto ai connazionali che, non più giovani, volevano conseguire la licenza media, per me era un modo come un altro per arrotondare le mie entrate. Non avevo dimenticato Elisa, mi aveva anche lasciato il suo telefono, ma la notevole differenza d’età fra di noi me l’aveva fatta vedere più come una bambina spaventata piuttosto che come una donna che potesse suscitare passione, amore o non so cos’altro…, durante la nostra conversazione le avevo raccontato un po’ di me e credo che le avessi detto che mi sarei esibito dopo qualche settimana a Basilea in un noto locale per giovani, non avevo proprio pensato di contattarla più, si trattava di un incontro occasionale che mi aveva permesso di fare “un fioretto”, come diceva il mio parroco al paese, aiutando una ragazza in difficoltà, questo era almeno quello che pensavo.
Figurarsi la mia sorpresa, quando me la vidi davanti all’Atlantis a Basilea il giorno del debutto. Era un sabato, pioveva a secchiate, noi stavamo scaricando dal furgoncino gli strumenti, quando mi apparì d’innanzi infagottata nel cappottino sotto un ombrellino, col solito nasino rosso e, questa volta, con gli occhi ridenti e brillanti come due stelline: “ciao”, mi disse, rimasi per qualche attimo senza parole, mentre la pioggia mi invadeva ormai anche il petto. “Fai attenzione che ti becchi un bel raffreddore”, aggiunse con voce carezzevole, mi ripresi dalla sorpresa, la sospinsi per un braccio e l’accompagnai nei locali del backstage, i miei compagni mi lanciavano sguardi di disapprovazione, fra di noi c’era un accordo preciso: niente intrusioni sentimentali durante le nostre esibizioni, dovevamo essere concentrati solo su quello che dovevamo fare: suonare!
Cercai di tranquillizzarli, dissi che si trattava di un’amica e niente di più. Elisa aveva capito che forse era d’impaccio e alla chetichella stava imboccando il corridoio che portava all’uscita, riuscii a bloccarla, la feci entrare nella sala ancora vuota dove gli inservienti stavano ultimando il loro lavoro e la pregai di aspettarmi: un bacio sulla guancia, una carezza, come si fa con i bambini, e tornai dai miei amici. La serata era molto importante, l’Atlantis era uno dei locali più noti della Svizzera, sapevamo che da quella sera dipendeva l’ingaggio di un mese promesso dalla nostra agenzia musicale e ce la dovevamo mettere tutta, eravamo elettrizzati e comunque abbastanza sicuri di noi. Nelle successive due ore fui impegnato a installare le apparecchiature, provare microfoni e strumenti perché ogni cosa funzionasse alla perfezione, quando tutto fu pronto potemmo rilassarci, darci una ripulita nei camerini e cambiarci d’abito.
Tornai nella sala, era rimasta lì dove l’avevo lasciata, tutta infreddolita. Aveva smesso di piovere, uscimmo, il “Cafè Art” era lì a due passi, feci un cenno e una strizzatina d’occhi ai miei compagni per tranquillizzarli che era tutto ok, ma notai nei loro sguardi una sensazione di meraviglia, mi voltai verso l’obiettivo inquadrato dai loro occhi ……. Elisa aveva tolto il cappottino beige ed era …. stupenda in una mise mozzafiato: stivali e minigonna neri mettevano in risalto due gambe perfette, una camicetta appena appena scollata riusciva a malapena a contenere l’esuberanza del giovane seno ed un sorriso finalmente disteso illuminava il visino delicato d’una bellezza ancora incontaminata.
Dovetti sembrare sicuramente impacciato e lo ero, non riuscivo a distogliere lo sguardo dai suoi occhi, ci sedemmo, ordinai qualcosa da mangiare, cercai di iniziare una conversazione decente, volevo domandarle tante cose, prima di tutto come aveva fatto ad arrivare lì (Zurigo dista circa 70 km da Basilea) ma non riuscii a dire o fare nulla, perché i miei amici si erano fatti tutti sotto, bramosi di conoscere quella bellezza. Faticai non poco ad allontanarli, dovetti però fare le presentazioni, mi inventai qualcosa, insomma riuscii a restare solo con lei, mentre le pulsazioni del mio sistema circolatorio andavano a mille.
Mi disse che aveva ricordato il mio accenno alla serata di Basilea, aveva memorizzato il nome del locale, sperava che io la chiamassi, mi faceva un broncio delizioso mentre me lo diceva, ma visto che il telefono restava muto, era riuscita a contattare il locale, così seppe la data dell’esibizione, aveva preso il treno e poi un taxi ed eccola lì. Mica male come intraprendenza, pensai, per una ragazzina “spaesata”. Ma non ebbi il tempo per approfondire, la serata incombeva. Andò benissimo.
Il pubblico ci accolse con calore e noi ci lasciammo trascinare dall’entusiasmo, io cantai con maggior grinta anche alcune mie composizioni che dedicai mentalmente a lei, ogni tanto durante le brevi pause scendevamo fra il pubblico, le sedevo accanto, le chiedevo se le piaceva, se era contenta, se stava bene, ero preoccupato intanto del dopo. Solitamente, quando capitava d’incontrare qualche puschella dopo l’esibizione, ognuno se ne andava per i fatti suoi e finiva a passare la notte fra le lenzuola con l’occasionale partner, non si andava molto per il sottile in quella fine degli anni ’60 ….. con Elisa sapevo che questo non sarebbe stato l’epilogo.
Andammo avanti fino alle tre del mattino, avrei dovuto aiutare gli altri a caricare sul furgoncino tutto il nostro materiale, ma furono comprensivi e mi liberarono da questo impiccio. Una volta in macchina, misi un nastro di Nat King Cole, e al suono della sua voce carezzevole, lei si addormentò accoccolata sul sedile con la testa poggiata sulla mia gamba. La ford taunus del ’64 aveva il cambio al volante e il sedile davanti a panchina, non avvolgente come quelli d’oggi, c’era abbastanza spazio e mentre dormiva io le accarezzavo dolcemente la testa ed il viso. Non parlammo, fu il viaggio più bello della mia vita, giunti nelle vicinanze di casa sua la svegliai, le domandai come avrebbe giustificato con i suoi la lunga assenza, ma disse che era d’accordo con un’amica. Mentre stava per lasciare l’auto, l’attirai a me e la baciai per la prima volta con passione, rispose con altrettanto slancio, poi se ne andò quasi di corsa. Non c’era niente da fare: ero innamorato.
Erano trascorsi quasi dieci anni da quando avevo provato la stessa forte emozione, il mio cervello scottava, odiavo tutti quelli che parlavano di cuore correlandolo con amore ecc ecc., il cuore non è che un muscolo, pensavo, i sentimenti si provano con l’anima e passano attraverso i neuroni del cervello, ma intanto il mio cuore “batteva all’impazzata”, come sta scritto in quei romanzetti rosa per signorine di buona famiglia. “Alla fine vuoi vedere che sono piombato anch’io nella retorica sentimentale?” Mi chiedevo allarmato. Andai subito a dormire ed i miei sogni furono …… meravigliosi.
Solitamente, il mattino successivo alle serate, dormivo fino a tardissimo, quella domenica stranamente, mi svegliai molto prima, un’occhiata all’orologio, erano le undici, Elisa mi aveva detto che andava a Messa con la famiglia proprio a quell’ora. Mi alzai, una sciacquata rapida al viso, infilai i primi indumenti che trovai in giro per la stanza e corsi in macchina verso la chiesa cattolica a pochi isolati dal mio quartiere. La messa era già iniziata, entrai, la cercai, la vidi. Mi apparve ancora più bella con quel vestitino rosa pallido che faceva a gara col pallore del viso, doveva essere stanca anche lei. Non si accorse di me, l’aspettai all’uscita; quando mi vide le feci un cenno di saluto che contraccambiò con un sorriso lieve. Ora sapevo che non avrei più potuto fare a meno di lei.
Iniziò così la nostra storia. Elisa mi amava in modo semplice senza domande, senza perché. Cominciò a seguirmi nelle mie scorribande musicali e quando fummo ingaggiati per un tour in alcuni locali del Nord-Europa, che sarebbe durato alcuni mesi, volle venire con me. I genitori opposero molta resistenza, ma poi capirono che sarebbe stato molto peggio se avessero contrastato con eccessiva fermezza la sua decisione e la lasciarono partire. Furono 2 mesi intensi: Berlino, Luebeck, Amburgo, Copenhagen, Stoccolma; Elisa era divenuta amica di tutti, si dava da fare durante i nostri spostamenti a preparare la colazione per il viaggio, attaccava bottoni, rammendava calzini e durante le prove ci dava addirittura consigli tecnici dimostrando un notevole orecchio musicale.
Noi due vivemmo quel viaggio come un straordinaria “luna di miele”. Dopo le serate facevamo quasi sempre all’amore, la stanchezza ci aggrediva poi di colpo e ci addormentavamo abbracciati, tanto che al risveglio ci si trovava ancora avvinghiati con le braccia indolenzite. Gli amici ci prendevano bonariamente in giro, ma tutto sommato avevano accolto bene “die kleine Elise”, come la chiamavano affettuosamente. Alla fine del giro, tornammo a Zurigo e decidemmo di vivere insieme.
La vita riprese gioiosa tra lavoro, musica e lunghe passeggiate, ma questa volta insieme. Il nostro legame si rafforzava sempre più. Cominciammo a parlare di matrimonio, le brillavano gli occhi quando immaginava la festa che avremmo organizzato, non volevamo il solito ristorante, pensavamo ad una specie di happening, magari in un bosco, con tutti i suoi ed i miei amici, musica a volontà, tanti tavoli imbanditi, ballare e cantare insieme e fiori dappertutto….!
Una mattina Elisa si svegliò con un malessere strano, pensammo stanchezza, la lasciai a letto tranquilla, quando uscii volle darmi ancora un bacio, lieve con le sue labbra di velluto. Al lavoro, però, non ero tranquillo, avevo una sensazione strana, come se qualcosa dovesse accadere. Alla pausa pranzo tornai a casa! La trovai a letto, sembrava dormisse, entrai piano per non disturbarla, mi avvicinai, le presi la mano, una mano fredda come il ghiaccio. Capii. Gridai, piansi disperato. Lei non c’era più. Mi aveva lasciato…… così, all’improvviso, con quel bacio sfiorato come ultimo estremo saluto.
Abbandonai tutto, musica, amici, città, girai come un cane randagio per mesi. Ricordo poco di quei giorni, vissi “on the road”, conobbi gente di cui non ricordo nulla, infine a poco per volta mi ripresi, tornai, ricominciai a vivere, rividi i miei compagni che ebbero la delicatezza di non chiedermi nulla, riuscii a suonare di nuovo….
Elisa da allora è sempre con me, angelo che mi protegge dal cielo, la vedo fluttuare col suo eterno sorriso di bimba che mi sussurra ancora parole d’amore. Mentre ogni notte, quando la mia testa ormai canuta si poggia sul guanciale, un umidore strano mi bagna le ciglia e……. la sogno!
(foto dal web)