Quando ero bambina, alle elementari e alle medie, scrivevo esattamente come adesso su questo blog. Dai primi pensierini ai temi mi piaceva comporre testi veloci e smilzi, pieni di battute divertenti. Venivo da una famiglia dove mi avevano insegnato a essere ironica ancora prima che a respirare. Mi avevano poi tirato su a furia di favole di Rodari. Di conseguenza persino quando si parlava di argomenti seri c'era sempre un po' di scapricciata leggerezza. A scuola avevo sempre voti alti in italiano. Scoprii che addirittura la mia maestra, anche lei persona molto simpatica e allegra, si divertiva spesso a far girare fra le colleghe i miei temini: senza saperlo, insomma, tenevo già una forma inconsapevole di blog seguito da una cerchia di lettori.
Il problema sorse alle medie, quando cambiai città e di conseguenza scuola. Finii dalle suore e la mia insegnante di italiano era la madre badessa in persona. Non che fosse cattiva, eh. Ma era una suora vecchio stampo, di quelle cresciute pensando che il mondo fosse un luogo di pena e di sofferenza e che il compito di un buon cattolico fosse quello di macerarsi il più possibile, accumulando punti per il paradiso. In classe le sue lezioni erano sequele immense di disgrazie. Ci parlava di povere fanciulline defunte per malattie incurabili in età prescolare, ma morte con il sorriso sulle labbra fra patimenti atroci perché destinate ad andare lassù fra gli angeli. Ci spaventava insinuando che l'apocalisse atomica (scatenata ovviamente dai russi comunisti) sarebbe scoppiata di lì a poco, e noi avremmo dovuto essere pronti a passare a miglior vita in un enorme rogo nucleare. Ci illustrava con dovizia di particolari tutte le possibili sventure che ci potevano colpire: malattie, morti di genitori e parenti, incidenti invalidanti, pandemie, guerre globali, alluvioni, invasioni di cavallette, stragi di primogeniti e/o altri geniti in qualsiasi ordine e grado all'interno delle famiglie. Se spiegava una poesia questa doveva adeguarsi a due imprescindibili requisiti: essere scritta da un poeta cattolico e raccontare qualche avvenimento infausto e luttuoso. Nel corso degli anni ci siamo così sorbiti caterve di Ungaretti con figlio moribondo per l'appendicite ("Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto!"), di madri di Cecilie appestate, di pascoliani lamenti su padri uccisi, di genitrici deamicisiane ancora vive ma ormai destinate al rapido e fatale decadimento fisico, di mogli orbe di Montale defunte nello scendere le scale (ero una bambina, questo avevo capito).
Ora, immaginatevi me, che già di mio ho una fifa bestia delle malattie e dei microbi, e quindi quando mi trovo a doverle affrontare nella realtà esorcizzo con una battuta e mi appello al sano buon senso, a stare immersa in questo blob di sfiga perpetua e costante. Quando ci chiedeva di commentare con tono contrito e piangente a me venivano in mente testi in cui suggerivo banalmente ad Ungaretti di chiamare il pronto soccorso al primo mal di pancia del pargolo, spruzzavo tutta Milano con nuvole di disinfettante antisettico, suggerivo a Pascoli di smetterla di frignare e affidare a Poirot una bella indagine per consegnare il colpevole alla giustizia, regalavo alla madre di De Amicis un buono per una beauty farm o una visita dal chirurgo plastico e suggerivo a Montale e signora di mettere in casa una di quelle sedioline elettriche che fanno su e giù onde evitare cadute rovinose.
Per quanto abbia provato a trattenermi, nel primo tema che scrissi la mia vena allegra e pragmatica saltò fuori fra le righe, e di conseguenza presi il primo ed unico votaccio in italiano della mia vita. Mia madre vedendo il compito restò perplessa, e anche un po' preoccupata. Ma io la rassicurai dicendo: «Non ti preoccupare, era un esperimento. Ora ho capito cosa vuole.» Da quel momento in poi i miei temi divennero un perfetto prodotto commerciale adatto alla suora triste che li doveva correggere. Voleva testi piagnisteo in cui si geremiava sulle disgrazie del mondo? Ero in grado di comporne a macchinetta, toccando tutte le sfumature dal triste, al mesto, al patetico. Cumulavo disgrazie con una tale perizia che in confronto i Malavoglia sembravano una gita dell'Alpitur. Inanellavo riflessioni che la suora trovava profondissime, mentre erano solo il frutto di una sapiente ars combinatoria. Prendevo un po' di generica tristezza, la mescolavo con qualche osservazione apparente sulla necessità di emendarsi attraverso il dolore, finivo con qualche sospirosa variante dell'"Oh, signora mia!".
Naturalmente io non credevo ad una sola parola di quello che scrivevo. Era un puro esercizio di stile. Quando tornavo a casa, continuavo a tenere il mio diarietto allegro e a comporre testi come piaceva a me, ridendomela alla grande dei seriosissimi cumuli di sfiga che evocavo nei temi scolastici.
Ma la suora era entusiasta. Era convinta di avermi finalmente dato una quadratura mentale, avermi salvato dalla mia inclinazione sgarzola e trasformata in una piccola donna assennata e diligente, in grado di affrontare con la giusta dose di rassegnazione e cattolicissima remissività il mondo. Non ebbi più problemi di brutti voti, né a mia madre toccò sorbirsi ai colloqui con i genitori lamentele per la mia supposta superficialità e immaturità. Sopravvissi senza scosse agli anni in quella scuola, aspettando che finissero le medie e che io finalmente potessi lasciare quell'ambiente inadatto a me.
Ero ipocrita? Sì, certo. Ma avevo capito due cose che mi sono state fondamentali nella vita successiva. Una riguarda la comunicazione, e cioè che quando devi produrre dei testi che non sono per te, ma per il pubblico, devi capire qual’è il tuo target ed adattartici, se non lo puoi scegliere. La suora triste voleva temi tristi, e io glieli componevo, da brava piccola professionista della scrittura. Tecnicamente è stata una gran scuola.
L'altra cosa che ho capito riguarda invece l'anima degli esseri umani. Ci sono persone con cui non ha senso far vedere chi sei, perché comunque non sono capaci di capirti. Non sono cattive, semplicemente sono troppo distanti da te e non sono in grado, non per cattiveria ma per loro struttura, di accettarti. La suora triste voleva un mondo triste a sua immagine e somiglianza. La faceva star bene. Chi raccontava un mondo diverso, bello e divertente, minava le sue certezze interiori. Incaponirsi con lei non aveva senso, avrebbe generato uno scontro inutile, dannoso per entrambe. È importante nella vita capire quali battaglie ha senso combattere, perché non si può vivere in stato perpetuo di guerra. Con la suora triste la guerra sarebbe stato uno spreco di energie. Il Dante che avevo studiato con lei era ovviamente quello infernale, pieno di peccatori e disgrazie. Ma a me era rimasto ben in mente un verso: "Non ti curar di lor, ma guarda e passa." Ecco, io sono passata avanti, imparando quello che mi serviva.
Negli anni ho incontrato altre suore tristi, tante anche maschi. Sono persone che vogliono che la vita faccia schifo per potersene lagnare in continuazione. Hanno il terrore del senso dell'umorismo, perché sono convinti che essere perbene equivalga ad essere "seri", ma credono che per essere seri non si debba divertirsi mai. Vogliono che tu produca scritti formalmente perfetti che confermino le loro credenze. Contraddirli è inutile, non sono emendabili. Se lo fate, vi odieranno a morte e basta. Hanno in fondo bisogno di essere rassicurati, di sapere che il resto del mondo si lamenta ed è triste quanto loro. Dategli un po' di soddisfazione. Lamentatevi pure voi, li farete sentire meno soli. Costa poco, e ve ne saranno spesso grati, addirittura vi vorranno persino un po' di bene. Anche da loro si può imparare qualcosa, alla fin fine. Poi, seguite quello che piace fare a voi.
Tanto nemmeno voi siete emendabili più di tanto e se la vostra natura vi porta altrove, come la mia, è meglio seguirla.
Mariangela VAGLIO
dal blog: ilmondodigalatea