Questa parola dal suono così rugoso, articolato e burbero è uno dei diamanti presenti in un libro che ha fatto la storia della nostra letteratura nel secolo scorso: si tratta di ‘Lessico famigliare’, un’opera che è a metà strada tra romanzo, raccolta di racconti e autobiografia. Fu scritto da Natalia Ginzburg, nata Levi, nel 1963. È un libro ricchissimo e intenso, che presenta uno spaccato della vita intellettuale e antifascista di Torino tra gli anni ’20 e ’50 attraverso la lente privilegiata della famiglia Levi, un clan composto da padre ebreo triestino, madre milanese valdese, numerosi figli e, a corollario di tutto ciò, una serie di personaggi importantissimi della nostra storia: Adriano Olivetti, Filippo Turati, Leone Ginzburg, Giulio Einaudi e Cesare Pavese.
Il caposaldo dell’opera sta tutto nel titolo: il lessico. Ginzburg, usando il tempo imperfetto, reiterativo, che conferisce al testo la corpulenza dell’abitudine, ci presenta la sua famiglia e le sue frequentazioni attraverso dialoghi vivacissimi, costellati di punti esclamativi e di parole specifiche, particolari. Un gergo proprio ed esclusivo di quella famiglia tale che, usando le parole stesse di Ginzburg:
“Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso […] Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire ‘Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna’ o ‘De cosa spussa l’acido solfidrico’ […] Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio d’una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, […] sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo.”
Sbrodeghezzo è quasi sempre in bocca all’austero e severo padre, Giuseppe, che lamenta la maleducazione dei figli. Tuonava infatti il professor Levi, alla vista dei ragazzini che facevano la scarpetta col pane: “Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi!” Sbrodeghezzi, secondo il vecchio Levi, erano anche i quadri di pittura moderna, tutte le cose pasticciate e fatte di malagrazia.
La parola arriva nella torinese via Pastrengo partendo dai vicoli triestini di cui era nativo il padre di Ginzburg. In triestino, infatti sbrodighez significa ‘intruglio, pasticcio’ e il verbo sbrodigar è ‘fare pastrocchi’. In effetti, se diamo un’occhiata anche ad altre parole bislacche che compongono il lessico famigliare di Ginzburg, ci accorgiamo che è Trieste, città di confine, ebraica e mittleuropea, la patria di molti dei termini che compongono i discorsi di casa.
Sbrodeghezzo è una parola che si intende al volo, abbastanza arcigna, dura e lunga da poter intervenire nei nostri discorsi per sostituire altri termini, magari più conosciuti, facili e pure parecchio volgari: spero che tu non abbia intenzione di consegnare quello sbrodeghezzo di relazione al professore, perdonatemi, mi mancavano diversi ingredienti e temo di aver combinato uno sbrodeghezzo per cena.
E se qualcuno, strabuzzando gli occhi nel sentirci articolare questo sbrodeghezzo di parola, ci chiederà da quale cilindro abbiamo tirato fuori un tale coniglio lessicale, potremo indicare questo libro — un affaccio sull’Italia del Ventennio, sull’Italia antifascista, sull’Italia che ha costruito la sua identità intellettuale e politica, e sulla tavola caotica di una famiglia torinese.