Ragionando di femminismo, stereotipi culturali, accademismi, attualità e inattualità dei linguaggi. Quando l’arte pubblica è arte del cliché. Il caso della “Spigolatrice di Sapri”, simile a molti altri che invadono lo spazio della collettività…
(Foto:Lartista Emanuele Stifano dinanzi alla sua opera)
«Eran trecento, eran giovani e forti,/e sono morti!/Me ne andavo al mattino a spigolare/quando ho visto una barca in mezzo al mare…». Canta l’amore per la sua terra, la giovane spigolatrice, con parole destinate a scolpirsi nella memoria collettiva e in quella di tante generazioni di scolari; canta, nei fortunati versi di Luigi Mercantini, la sua commossa adesione all’insurrezione antiborbonica che Carlo Pisacane tentò a Sapri, in provincia di Salerno, nel 1857. Un componimento enfatico, dagli accenti emotivi ed ingenui, che affida all’allegorica figura femminile il punto di vista sulla fallita rivolta guidata da un nucleo mazziniano, finita col massacro della spedizione a Padula. A essere sacrificati i detenuti politici dalla prigione di Ponza, liberati e mandati in battaglia, aggrediti come delinquenti dai contadini stessi, sobillati dalle autorità. Dimenticandosi di raccogliere i chicchi delle spighe cadute durante la mietitura, attività quotidiana che scandiva un’esistenza di miseria, la fanciulla segue i combattenti per assistere infine alla sanguinosa disfatta.
LA STATUA E LE ACCUSE DI SESSIMO
Oggi, a rievocare la cruenta pagina di storia risorgimentale, impressa nell’affresco del poeta, è ancora “la spigolatrice di Sapri”, incarnata nello scintillio bronzeo di un monumentale tributo: dalla poesia alla scultura, essendo ancora una volta icona. Arte pubblica, nel senso più tradizionale del termine. Figurativa e celebrativa, fra epica, storia, realismo. Voluta dall’amministrazione comunale di Sapri e salutata con grandi lodi dal Sindaco (ex PD, oggi IV) Antonio Gentile, l’opera porta la firma del giovane scultore cilentano Emanuele Stifano: inaugurata lo scorso 25 settembre in presenza della autorità locali – con tanto di visita speciale di Giuseppe Conte, impegnato nel suo tour elettorale per il M5S – la statua ha trovato posto in un angolo del lungomare cittadino.
Ed è polemica immediata. Sull’”Huffington Post” arriva un duro articolo di Manuela Repetti, imprenditrice ed ex Senatrice del Gruppo Misto, prima tra le fila del Popolo delle Libertà e di Forza Italia, indignatasi per le fattezze della statua, pensata “con un abito succinto, trasparente e con un atteggiamento provocante e lascivo, suggerendo di guardarle il bel sedere in mostra, tondo e perfetto, nel caso qualcuno non lo avesse notato”. E in effetti. Più velina che contadina, la novella spigolatrice non è certo ingolfata in una comoda mise campestre, curva tra le spighe, stanca, arruffata, oppure austera con lo sguardo all’orizzonte, a scorgere la truppa che avanza verso la terra ferma. Niente di tutto questo, e ci sta; o meglio, ci starebbe, qualora il linguaggio scelto riuscisse a scansare la mera intenzione illustrativa.
È un’immagine scolpita tra figurazione e commemorazione, quella di Stifano, lontana da approcci simbolisti, linee d’astrazione o vocazioni concettuali. Lontana anche da intenzioni veriste. Legittimo, anzi. “Non doveva essere” – spiega lui – “un’istantanea fedele di una contadina dell’800, voleva bensì rappresentare un’idea di donna, evocarne la fierezza, il risveglio di una coscienza“. Voleva, ma non ce la fa. Per manifesta debolezza. Questo rigido, accademico e ordinario esercizio di anatomia ricorda piuttosto una ragazza d’oggi, fasciata da un longodress trasparente incollato alle natiche, le spalle nude, una mano a reggere con mollezza il corpetto che scivola e lo sguardo ammiccante, laterale, manco fosse un’influencer sulla copertina di “Chi” o una starlette sul red carpet in Laguna.
E però, il Sindaco respinge l’accusa di sessismo e difende l’opera, a parer suo “realizzata con maestria e impeccabile interpretazione”, puntando il dito contro Repetti, la quale non avrebbe forse gradito, durante l’inaugurazione, “la presenza di politici a Lei non inclini”. Polemiche pretestuose, per attaccare l’amministrazione?
All’ex senatrice intanto fanno eco le rimostranze di altri osservatori illustri: mentre Laura Boldrini parla di “offesa alle donne e alla storia che dovrebbe celebrare“, dalla Sicilia arriva la lettera delle Donne del PD di Palermo, le quali intendono schierarsi “in modo netto e categorico per l’abbattimento di questa statua diseducativa e fuorviante che banalizza le donne e vanifica ogni comizio in favore della parità di genere urlato dalle poltrone politiche di ogni istituzione”. E abbondano i commenti indignati sui social, pari – va detto – a quelli di chi ha invece apprezzato.
CENSURA O LEGITTIMA RIVENDICAZIONE?
Che la scelta di un’iconografia smaccatamente erotica, a fronte di un tema alto, serio, enfatico, risulti gratuita, persino buffa, è evidente. Il caso può però arrivare a trasformarsi in una battaglia femminista, contro la sessualizzazione dei corpi delle donne e la loro riduzione a oggetti erotici, inchiodati dall’occhio maschile a un mix di concupiscenza e giudizio? Un tema reale, complesso, di cui le società occidentali sono ancora pervase e che non si può rischiare di semplificare esasperando i contorni di una vicenda piccola e un po’ scivolosa. Serve davvero un rabbioso moto iconoclasta, che rischia di confondersi con un atto di moralismo talebano? Abbattere la statua addirittura?
Il fatto è che non ci si indigna qui per via della raffigurazione di una femminilità florida, suadente: il puritanesimo non c’entra e non può entrarci con l’arte, mai. L’arte non sceglie vie rassicuranti, non teme provocazioni e perversioni, sa essere selvatica, erotica, maleducata, smisurata. Contro ogni principio di censura. E se pensiamo che il recente processo di liberazione dei corpi femminili dal giogo del bigottismo catto-borghese è stato parte integrante delle storiche lotte femministe, è chiaro che il problema, per chi oggi parla di maschilismo, non può essere lo scandalo di un corpo nudo o attraente. Il problema sorge quando un altro giogo si sostituisce al precedente, quando a imporsi è l’imperativo categorico di una bellezza a tutti i costi erotizzata, compressa nei canoni stabiliti del fashion system e dallo show business, tutt’uno con i processi di monetizzazione del desiderio e con la vetrinizzazione dei corpi-brand.
La spigolatrice-soubrette, nel contrasto tra l’immagine, la natura storica del soggetto e la memoria tragica del luogo, richiama un po’ questi vizi diffusi, radicati, spesso inconsapevoli. Ma non è certo la sensualità in sé a disturbare: dovremmo allora scagliarci contro l’intero corpus della storia dell’arte e contro un’infinità di opere e di capolavori in cui l’eros, o comunque il corpo nudo, sono protagonisti. Opere la cui potenza visiva è un fatto di intelligenza creativa, di linguaggio e di pensiero.
IL TRIONFO DEI CLICHÉ, TRA FORMA E CONTENUTO
Il punto allora è uno: il cliché. Il dominio dello stereotipo qui si spalma equamente tra il piano del segno e quello del senso, tra i processi di formalizzazione e l’idea sottesa. Tutto qui è stereotipo. Ecco perché l’opera non funziona ed ecco perché quella nudità provoca un disagio inutile, un fastidio non interessante. Al cliché del corpo femminile sexy, per forza seduttivo, sempre a favore di telecamera, corrispondono i cliché di una pratica scultorea lontana dal coraggio di una ricerca estetica profonda, ancorata al presente e orientata al futuro. Uno stereotipo figlio dell’altro, inevitabilmente. Questa diffusa attitudine di certa scultura e pittura possiamo collocarla nell’ambito di un’artigianalità accademica, illustrativa, commerciale, spesso condotta con approssimazione tecnica imbarazzante, oppure avvitata in un perfezionismo di maniera.
E allora come può una scultura concepita nel segno di una tradizione svuotata e banalizzata evitare il pericolo del luogo comune anche in fatto d’iconografia? Se è vero che l’artista definisce la propria poetica attraverso il ragionamento sulla forma, sulla materia, sulle traiettorie del visibile, sui significanti e sul loro rapporto col presente e con la storia, non è difficile comprendere come l’inciampo nella stereotipia dell’immagine corrisponda alla scorciatoia di un’arte come pura didascalia, raccontino, esercizio del grazioso, del conforme, del patinato.
E intanto le opere nello spazio pubblico (statue o murales) si ritrovano sovente a celebrare personaggi reali o immaginari – star dello spettacolo o dello sport, santi e madonne, protagonisti della cronaca, eroi dell’antimafia e supereroi fantasy – coi loro plinti, le loro piazze, i loro sguardi dall’alto, le loro facce giganti, tra il solito iperrealismo fotografico e infinite variazioni di temi, di stili. Un bastimento di bambole e pupazzi, per una esibizione – quando va bene – di mera tecnica. Ma più spesso nemmeno la qualità si salva: l’imperio del brutto, spacciato per riqualificazione, per operazione identitaria, per occasione di abbellimento urbano. Arte conformista, populista, instagrammabile, più prossima alla decorazione che non alla complessità dell’indagine estetica e intellettuale: le città italiane ne traboccano, a discapito di una progettualità di livello alto, dal respiro contemporaneo e internazionale.
Infine, a proposito di questioni figlie del presente, su cui tutte le arti dovrebbero soffermarsi, qual è o dovrebbe essere, in questa fase storica, il senso dell’arte pubblica? Da quasi un secolo l’originaria attitudine celebrativa è stata superata, insieme ai residui patriottici, agli incrollabili riferimenti valoriali, ai modelli granitici, alle più rigide partizioni del vivere sociale. L’idea del feticcio, col suo basamento che lo eleva a modello, sembrava definitivamente superata. L’eccezione, però, si annida quasi sempre in quegli stessi teatri della rappresentazione a buon mercato e del cliché. Un recupero dell’idea del monumento, in una chiave più tradizionale, dovrebbe invece passare da una prospettiva inevitabilmente attuale, che problematizzi la questione e che porti con sé conquiste, codici, urgenze, linguaggi e interrogativi vivi e vitali. Opere come serbatoi di identità complesse e in mutazione, più che figurine da collezionare tra lo spazio urbano, i social media e il vorace consumismo del pop.
Helga Marsala
(Fonte: www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea)
(Manoscritto originale della poesia di Luigi Mercantini)