Alcuni anni fa sul sito sibari.info pubblicammo un articolo afferente l’importante collezione di dipinti appartenuti al marchese Gianfrancesco Serra duca di Cassano (in calce riportiamo parte di quella nota). Oggi scopriamo che uno di quei dipinti è stato restaurato e sarà messo in mostra al Museo del Prado di Madrid. Ricordiamo che i figli, alla morte del padre, misero all’asta a Napoli nel 1666 l’intera raccolta di circa 40 dipinti, che fu acquistata dal re di Spagna Filippo IV per tramite del vicerè spagnolo a Napoli Gaspar Bracamonte Y Guzman. L’opera di cui scriviamo è un magnifico olio su tela dell’artista bolognese Guido Reni raffigurante il mito di Atalanta e Ippomene, ricordato nelle “Metamorfosi” di Virgilio. Di questo soggetto esistono due tele una, copia dell’altra, che si trovano rispettivamente al museo del Prado e a Capodimonte a Napoli. Sono ambedue riconducibili a Guido Reni, ma gli specialisti ancora oggi non hanno stabilito con precisione quale delle due sia stata la prima versione.
Noi vogliamo porre l’attenzione sul fatto che quel dipinto probabilmente ha fatto bella mostra di sé nelle sale del Castello di Cassano dove il 1° Marchese aveva soggiornato dopo il matrimonio con Maria Giovannetta Doria, duchessa di Tursi, avvenuto nel 1633.
Da wikipedia apprendiamo: “La tela di Madrid proviene dalla collezione del marchese genovese Giovan Francesco Serra (Genova, 1609 - Majorca, 1656), militare al servizio della corona di Spagna cresciuto con suo zio in terra iberica, un ambasciatore di Genova in Spagna, molto attivo sia a Napoli, sia nelducato di Milano. Tuttavia non si sa se il Serra sia stato il reale committente o se abbia acquistato l'opera da qualche altro mecenate, né tanto meno in che occasione sia entrato in contatto col Reni. Alla morte del marchese la sua collezione (composta da circa quaranta dipinti) fu portata a Napoli, città nella quale si stabilirono i figli, che intanto videro il loro titolo elevato a duchi di Serra di Cassano da Carlo II, e quindi messa all'asta dagli stessi nel 1664”.
Il mito di Atalanta e Ippomene dalle “Metamorfosi” di Ovidio canto X :
vv. 561-707 Venere racconta la storia di Atalanta e Ippomene
"Avrai forse sentito parlare di una che vinceva nelle gare di corsa gli uomini più veloci. Non era una frottola, quella voce: li vinceva davvero. E non avresti saputo dire se fosse più da ammirarsi per merito dei piedi o per la bellezza del corpo. A costei, che lo consultava a proposito del matrimonio, l'oracolo rispose: 'Tu non hai nessun bisogno di un marito, Atalanta. Evita l'esperienza coniugale. E tuttavia non vi sfuggirai e, viva, non sarai più te!' Atterrita da quel responso, essa va a vivere nei boschi bui, senza sposarsi, e per sbarazzarsi dello stuolo petulante dei suoi pretendenti pone loro, crudele, questa condizione: 'Nessuno potrà avermi se prima non mi vincerà nella corsa. Misuratevi con me: chi sarà veloce abbastanza, avrà in premio me come sposa; i lenti pagheranno con la morte. Questa è la regola della gara'. Cattiva proprio; ma, tanta è la potenza della bellezza, quei temerari di pretendenti accettano e si presentano in folla. Rischiosissima corsa! Seduto tra gli spettatori c'era Ippòmene, il quale aveva detto: 'Possibile rischiare tanto per avere una moglie?', e aveva biasimato il fanatismo dei giovani spasimanti. Ma quando lei si sfilò i veli e mostrò il suo corpo splendido (come il mio, o come il tuo se tu divenissi femmina), rimase sbalordito e alzando le braccia esclamò: 'Perdonatemi, voi che un istante fa rimproveravo! Ancora non sapevo a quale premio aspiravate!' E mentre la ammira, s'infiamma, e si augura che nessuno sia più veloce di lei, e teme, preso dall'invidia. 'Ma perché non tento la fortuna e non partecipo anch'io? - dice. - La divinità aiuta gli audaci'. Mentre il giovane dell'Aònia cosi ragiona fra sé, la vergine corre come avesse le ali. E lui, per quanto stupito al vederla filare come una freccia degli Sciti, ancor di più è stupito della sua bellezza, ché quella corsa la fa ancor più bella. Porta, sollevata dai piedi veloci, sandali d'oro; i capelli svolazzano sulle spalle d'avorio, come svolazzano le fasce, dai bordi ricamati, che ha alle ginocchia; e il candore verginale del suo corpo si è soffuso di rosa: cosi una tenda di porpora, in un atrio marmoreo, trasmette al bianco come un velo d'ombra. Il forestiero sta ancora osservando queste cose, che ecco, si taglia il traguardo e Atalanta, vincitrice, viene ricinta di corona festosa. Mandano un gemito gli sconfitti, e pagano con la vita, come pattuito. Ippòmene non si lascia però spaventare dalla loro sorte; si fa avanti e fissando la vergine dice: 'Perché cerchi facile gloria vincendo gente incapace? Gareggia con me, e se la fortuna mi assisterà, non ti lamenterai di essere stata vinta da uno come me! Mio padre infatti è Megareo di Onchesto, e suo nonno è Nettuno: sicché io sono pronipote del re delle acque, e il mio valore non smentisce questa origine. Se poi sarò sconfitto, il fatto di aver vinto Ippòmene ti procurerà fama grande e imperitura!' Cosi dice, e intanto la figlia di Schenèo lo guarda con occhi dolci, e non sa se preferire di essere vinta o di vincere, e pensa: "Quale dio, cattivo con chi è bello, vuol perdere costui spingendolo ad aspirare alla mia mano e a mettere a repentaglio la sua cara vita? A mio giudizio, non valgo poi tanto! E non è la sua bellezza a commuovermi (anche se ben potrebbe commuovermi), ma il fatto che è ancora un fanciullo. Non lui mi turba, ma la sua età. Ma poi, è tanto prode e non trema al pensiero della morte! Ma poi, è in linea il quarto della stirpe del re del mare! Ma poi, mi ama e ci tiene tanto a sposarmi, da morire se una sorte cattiva dovesse negarmi a lui! Vattene, forestiero, finché puoi, e rinuncia a queste nozze sanguinarie. Matrimonio crudele è il mio. Nessuna rifiuterà di sposarti, e troverai certamente una fanciulla saggia che ti desideri. Ma perché mi preoccupo di te dopo averne mandati a morte già tanti? Mah! veda lui! Che muoia, visto che non l'ha spaventato la strage di pretendenti e che è stanco di vivere. Ma allora costui perirà perché voleva vivere con me, e in cambio dell'amore subirà, ingiusta ricompensa, la morte? Se vincerò, non sarà una vittoria invidiabile. Però non è colpa mia. Oh, perché non rinunci? Ma se sei cosi pazzo, oh fossi tu più veloce di me! Però, che sguardo virgineo su quel viso di fanciullo! Ah, povero Ippòmene, come vorrei che tu non mi avessi mai visto! Tu meritavi di vivere, e se io ero più fortunata, se un destino disgraziato non mi proibiva di sposarmi, eri l'unico con cui avrei voluto condividere il letto'. "Cosi ragiona, e inesperta, toccata per la prima volta da Cupido, non sapendo che sia, ama e non si rende conto di amare. Già il popolo e il padre di lei reclamano la solita gara, quando Ippòmene, discendente di Nettuno, con voce concitata m'invoca dicendo: 'Che la dea di Citèra mi assista nella prova e favorisca la passione che mi ha infuso'. Il vento benigno portò fino a me quella gentile preghiera, e io mi commossi, lo confesso, e non c'era tempo da perdere. C'è un campo (la gente del posto lo chiama campo di Tàmaso), che è la parte più bella dell'isola e che è stato consacrato a me dagli antichi, i quali ne fecero donazione al mio tempio. In mezzo a questo campo risplende un albero dalla chioma fulva, dai rami crepitanti di fulvo oro. Per caso io me ne stavo tornando di li e portavo in mano tre mele d'oro che avevo colto. Invisibile a tutti tranne che a lui, mi avvicinai a Ippòmene e gli spiegai che uso doveva fare di quei pomi. Ecco che squilli di tromba dànno il via: dalla linea di partenza l'uno e l'altra scattano tutti curvi in avanti, e i loro piedi veloci sfiorano appena la sabbia. Diresti che potrebbero radere il mare senza bagnarsi le piante, correre su un campo giallo di grano senza piegare le spighe. Urla e applausi incoraggiano il giovane, e qualcuno gli grida: 'Forza, forza, questo è il momento di buttarsi, Ippòmene! Corri! Mettici tutte le tue energie! Presto, ché vinci!' Non si sa se queste parole facciano più piacere all'eroe figlio di Megareo o alla vergine figlia di Schenèo. Oh, quante volte lei, quando già poteva sorpassarlo, rallentò e, contemplato a lungo il suo viso, a malincuore se lo lasciò indietro! Dalla bocca affannata usciva secco respiro, e il traguardo era ancora lontano. Allora il discendente di Nettuno si decise a lasciar cadere uno dei tre frutti. Si stupì, la vergine, e incantata dal pomo luccicante deviò e raccolse la sfera d'oro che rotolava. lppòmene la sorpassa; dalle tribune uno scroscio di applausi. Lei recupera con corsa veloce il tempo perduto, e di nuovo si lascia il giovane alle spalle. Rimasta indietro un'altra volta al lancio del secondo pomo, un'altra volta lo insegue e lo supera. Ormai c'era da correre solo l'ultimo tratto. 'Ora assistimi, - disse lui, - o dea che mi hai fatto il dono!' e con vigore lanciò l'oro splendente in linea obliqua verso il bordo della pista, perché essa ci mettesse più tempo a tornare. La vergine parve incerta se andarlo a prendere o no. Io la costrinsi a raccoglierlo, e quando lo ebbe preso ne accrebbi il peso e casi la ostacolai anche col carico, oltre che con la sosta. Perché il mio racconto non sia più lungo della corsa stessa: la vergine fu sorpassata: il vincitore se la prese, in premio, in moglie. “Non meritavo, o Adone, che lui mi ringraziasse, che mi onorasse con incenso? Dimenticatosi di me, né mi ringraziò né mi offri incenso. Mi piglia allora un accesso d'ira, e impermalita per quello spregio, per non farmi spregiare da altri in avvenire, provvedo a dare un esempio, istigando me stessa contro tutti e due. Essi passavano davanti al tempio che un giorno il nobile Echione, per sciogliere un voto, aveva eretto alla Madre degli dèi, tempio nascosto nel folto di una foresta; il lungo cammino li invogliò a riposarsi. Lì Ippòmene vien preso da una improvvisa quanto inopportuna brama di accoppiarsi, suscitata dal mio divino potere. C'era, vicino al tempio, una cella dove la luce filtrava appena, simile a una grotta, con una volta naturale di pomice e sacra da tempo immemorabile; il sacerdote vi aveva radunato molte statue di legno di antichi dèi. Ippòmene vi entra e profana il luogo santo con l'atto proibito. Le sacre immagini voltarono gli occhi per non vedere, e la Madre dal capo incoronato di torri fu incerta se affogare i colpevoli nell'onda dello Stige. La pena le parve leggera. E cosi, ecco che invece fulve criniere velano i colli poco prima lisci, le dita s'incurvano in artigli, le spalle diventano attaccature di zampe, tutto il peso si sposta in avanti, nel petto, e con la coda spazzano la sabbia. La faccia si corruccia, invece di parole emettono brontolii, invece che in case vivono e si accoppiano nelle foreste, e, temibili per gli altri, serrano tra i denti il morso, aggiogati al carro di Cibèle, leoni. “Tu, mio caro, evita queste belve, e con loro tutte le altre specie di animali che invece di voltare le spalle per scappare offrono il petto per combattere, perché il tuo ardimento non abbia a nuocere a te ed a me".
E fu così che Venere, per punirli di aver profanato il tempio, trasformò i due amanti in leoni.
Ma ora torniamo al dipinto e alla bella collezione del marchese Serra di Cassano ed ecco in lingua spagnola la nota riguardante la lista delle opere pittoriche appartenute al nobile Serra fedele suddito del re di Spagna, se fossero state a Cassano oggi avremmo una raccolta di altissimo valore artistico e culturale. Peccato. Però si potrebbe anche allestire una mostra con le copie-viventi di alcuni di quei dipinti, magari con il supporto di un artista della fotografia che abbiamo in casa, alludo al maestro Ottavio Marino.
"No se conocen inventarios completos de su colección, pero sí un catálogo de la almoneda que tuvo lugar en 1664. En la lista, que cuenta con cuarenta pinturas, prevalecen retratos y temas religiosos; veintitrés pertenecen al siglo XVI, entre las que diez son venecianas y ocho de las escuelas lombarda y emiliana; las diecisiete del siglo XVII incluyen seis flamencas, tres de estilo naturalista (Ribera, Caravaggio y Orazio Gentileschi), cinco de la escuela clasicista y cuatro milanesas. El interés de Serra por la pintura debió despertarse ya en Madrid para madurar a lo largo de la cuarta década del siglo; la mayoría de los cuadros debió de ser comprada en Milán y solo algunos en Nápoles. En general, la colección refleja el gusto de la época de Felipe IV, pero no hay duda de que una influencia particular sobre las predilecciones de Serra la ejerció la gran colección del marqués de Leganés. En la almoneda que su hijo Giuseppe realizó en Nápoles, el virrey Gaspar de Bracamonte y Guzmán, conde de Peñaranda, compró dieciocho pinturas por encargo de Felipe IV y las llevó consigo a su vuelta a Madrid; de las demás ha podido identificarse únicamente la Sagrada Familia, de Antonio van Dyck (Kunsthistorisches Museum, Viena). Seis cuadros fueron enviados a El Escorial, donde contribuyeron a la decoración del capítulo del vicario: Ester y Asuero, de Jacopo Tintoretto, el único cuadro que permanece en el monasterio; Santa Rosalía, de Antonio van Dyck; Cristo dando las llaves a san Pedro, de Vincenzo Catena; San Jerónimo meditando, de Antonio Campi; Santa Ana, la Virgen y el Niño, copia de Leonardo; y La Flagelación, de Daniele Crespi. Los cinco últimos llegaron al Museo del Prado entre 1837 y 1839. Once cuadros -nada se sabe de un San Juan Bautista despidiéndose de sus padres, atribuido a Caravaggio- quedaron en el Alcázar de Madrid. Tres de ellos -Apolo y Marsias, de José de Ribera, Venus y Adonis, probablemente del taller de Tiziano, y San Bartolomé, de Correggio- fueron destruidos por el incendio de 1734. Los demás -a excepción de Cristo con la cruz a cuestas, de Guido Reni, en la Academia de San Fernando, donde fue llevado en tiempos de José Bonaparte- pertenecen ahora al Museo del Prado; son: Venus, Adonis y Cupido, de Aníbal Carracci; Hipómenes y Atalanta, de Guido Reni; Pedro María Rossi, o Roscio, conde de San Segundo, de Parmigianino; Camilla Gonzaga, condesa de San Segundo, y sus hijos, atribuido a Parmigianino; Micer Marsilio y su esposa, de Lorenzo Lotto; La Virgen y el Niño [P337], de Andrea del Sarto; y Llegada de Herminia a la cabaña de los pastores, de Luigi Pellegrino Scaramuccia."
Antonio Michele Cavallaro