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Autonomia differenziata. Il pensiero dell'economista dott. Giuseppe Aloise

ALOISEIl convegno organizzato dall'associazione "Lettere Meridiane" a Lauropoli lo scorso 4 settembre  ha risvegliato l'interesse sull'argomento in molti nostri lettori, inviandoci loro impressioni e chiedendoci ulteriori approfondimenti. Il dott. Aloise è stato in quell'occasione il moderatore della serata ed a lui abbiamo chiesto anche alcune sue considerazioni in parte esplicitate in quel pubblico consesso e ve le proponiamo. (La redazione)

"Il tema dell’autonomia differenziata è al centro del dibattito politico. Infatti, dopo l’approvazione del disegno di legge Calderoli, l’iniziativa assunta da alcune regioni con il ricorso alla Corte Costituzionale per la dichiarazione di illegittimità costituzionale del provvedimento spacca-Italia e l’iniziativa popolare per proporre il referendum abrogativo, hanno riacceso lo scontro tra i sostenitori del disegno autonomistico “differenziato” e quanti si battono perché questo provvedimento non sia attuato.

Occorre perciò, al di la degli slogan, un’attenta riflessione sul significato e sugli effetti di questa legge che vorrebbe attuare quanto previsto nel riformato titolo V della nostra Costituzione.

Con la Legge Calderoli si è cambiato, come afferma la Professoressa Giovanna De Minico della Federico II, la corsia di marcia del regionalismo passando dal “ regionalismo cooperativo “ al “regionalismo competitivo”. E’ un autentico “salto della staccionata”.

Ma il regionalismo competitivo presuppone che gli attori, nel nostro caso le regioni, partano dagli stessi blocchi di partenza. Non possiamo certamente affermare che, nella situazione che viviamo, tutte le regioni siano equamente attrezzate per partecipare alla gara. C’è qualcuna che parte avvantaggiata e rende la gara falsata se non truccata. E, allora, bisogna stabilire che gli attori siano preliminarmente “equiordinati” perché il regionalismo competitivo possa avere inizio.

Nella nostra Costituzione è vero che l’art. 116 comma 3 prevede la possibilità che alcune Regioni si dotino di poteri diversi dalle altre (autonomia differenziata) ma il tutto deve avvenire nel rispetto dell’art. 119 che attraverso il “fondo perequativo” punta a garantire per tutti i diritti della persona.

Intanto osserviamo qual è la situazione di partenza delle regioni sotto il profilo del PIL Pro-Capite. Secondo i dati Istat, con 40,9mila euro nel 2022, il Nord-ovest resta la ripartizione con il Pil per abitante più elevato. Seguono il Nord-est, con 39,3mila euro e il Centro, con 35,1mila euro. Il Mezzogiorno si conferma ultimo, con 21,7mila euro, e si rafforza ulteriormente il divario con il Centro-nord: la differenza del Pil per abitante nel 2022 sale a 17mila euro dai 16mila euro del 2021 (era 14,5mila euro nel 2020).

Nel confronto con l’Unione Europea registriamo i seguenti dati: se facciamo pari a 100 il reddito pro-capite nella UE, l’Italia aveva un reddito di 112 nel 1995, 110 nel 2000, 100 nel 2013 e, ora, addirittura 97 nel 2021 – dato più recente - scendendo così al di sotto della media comunitaria.

Cosa avviene, per gli stessi anni, per le regioni più forti del nostro Paese? Prendendo in esame il reddito delle 280 regioni UE, la Lombardia scivola dal 17esimo posto al 44esimo; l’Emilia Romagna dal 25esimo posto al 55esimo ed il Veneto dal 36esimo posto al 74 esimo.

Sulla base di questi dati, gran parte dei gruppi dirigenti del Nord ritiene che la causa del declino sia ascrivibile in larghissima parte ai trasferimenti che il Nord produttivo deve sopportare per alimentare sprechi e disservizi delle Regioni meridionali. L’eccesso del prelievo fiscale al Nord e gli sperperi del Sud che finanzia i consumi interni con i trasferimenti di provenienza extra-regionale sarebbero le cause del declino del paese e del forte arretramento delle regioni del Nord rispetto alle aree più sviluppate. Inevitabile, quindi, l’attacco allo stato centrale ed alla politica redistributiva.

In questo contesto ritorna il problema dei “Reisidui fiscali “, pur se sotto forma di compartecipazione alle entrate fiscali, che era il miraggio della prima “devolution” padana

Il calcolo del “residuo fiscale” è abbastanza complesso e dà origine a risultati che variano a seconda delle modalità di calcolo e della regionalizzazione della spesa e delle entrate fiscali.

Intanto è abbastanza facile definire il residuo fiscale come la “differenza tra entrate fiscali e la spesa pubblica erogata”.

Per il calcolo dei residui normalmente si fa riferimento alla banca dati del Sistema denominato CPT (Conti Pubblici Territoriali) e per quanto riguarda la spesa pubblica erogata il calcolo può tener conto della spesa riferita alla PA (Pubblica Amministrazione) o al Settore Pubblico Allargato ( SPA)

Per i residui fiscali i Conti consolidati territoriali riferiti alle singole regioni, rivelano i seguenti risultati: Le Regioni del Centro Nord tra il 2000 ed il 2018 registrano in media per anno un residuo positivo pari a 140 miliardi. In particolare: La Lombardia per lo stesso periodo registra un residuo per anno pari a € 65 miliardi, ovvero le entrate fiscali superano di 65 miliardi la spesa pubblica. L’Emilia ed il Veneto singolarmente registrano un risultato pari a 20 miliardi. Le regioni del Mezzogiorno registrano un residuo di segno negativo pari ad € 37 Miliardi. Quindi la spesa pubblica erogata nel sud supera di 37 miliardi le entrate fiscali.

Normalmente la spesa pubblica calcolata territorialmente nelle singole regioni è al netto delle quote di ammortamento e degli interessi corrisposti ai detentori del debito pubblico (persone fisiche, società o intermediari finanziari banche etc..). Se si includono queste grandezze i risultati si correggono significativamente e le regioni del Centro-Nord quasi dimezzano il residuo positivo.

E’ evidente che la debolezza del sistema economico meridionale produce un basso livello di entrate fiscali mentre la spesa pubblica non può non garantire la parità di accesso ai servizi essenziali. Di qui la necessità di garantire una equità orizzontale che non autorizza a ritenere illegittimi i trasferimenti dello Stato verso il Mezzogiorno.

Se, invece, operiamo il calcolo assumendo come punto di riferimento la Spesa relativa al Settore Pubblico Allargato (SPA) che comprende oltre la Pubblica Amministrazione tradizionale altri enti pubblici e soggetti di varia natura (Anas, Enel, Ferrovie, Eni, Terna etc..) i risultati della spesa pubblica pro-capire sono sorprendenti e riducono se non addirittura azzerano l’impatto dei cosiddetti residui fiscali sulle economie delle regioni settentrionali.

Se utilizziamo la fonte dei Conti pubblici territoriali la spesa pubblica allargata risulta nel Mezzogiorno pari ad € 13.394 pro-capite mentre nel Centro Nord è pari ad € 17.065 pro-capite.

La Lombardia registra una spesa media pro-capite pari ad € 16.979, il Veneto € 14.188 e l’Emilia € 16.375.

Nel mezzogiorno dunque la spesa media pro-capite è al di sotto di € 3.671 rispetto alla media che si registra nel Centro Nord.

Il racconto di una spesa pubblica eccessiva nelle regioni meridionali viene smentita da calcoli più rigorosi e più obiettivi che regionalizzano nel complesso tutta la spesa riconducibile allo Stato in tutte le sue articolazioni territoriali ed al variegato mondo degli enti economici che pur mostrando una forma di tipo privatistico sono riconducibili al capitale pubblico.

Il surplus di spesa pubblica nelle regioni del Nord rispetto al Mezzogiorno ha determinato le differenze soprattutto per la dotazione delle infrastrutture materiali ed immateriali. Valga per tutti il divario relativo all’Alta velocità: Al Nord 0,80 Km ogni 100 Km quadrati, al Centro 0,56 Km, al Sud 0,15 Km.

Se vogliamo rispettare la Costituzione, il salto della staccionata con il passaggio al federalismo competitivo potrà avvenire solo se si ristabiliscono le stesse condizioni di partenza."

Giuseppe ALOISE

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