Questa storia si svolge nel paesino di Cavolmia, e più precisamente nella sua ultima propaggine abitativa verso valle di via degli Orti, dove, in una delle due casette finali, abitava la graziosa orfana ventenne detta La Sveltina, per "motivi" noti a tutto il paese.
Avvenne, in una fredda alba d'inverno, che la ragazza non uscisse come al solito per salire fino al bar, chiamato Tuttobè.
Lo notò la sua dirimpettaia mentre stendeva i panni camminando, ancora in pantofole, sulla brina gelata. Essa, conosciuta come La Lucente, lo notò e basta, visto che, con tre figli, un marito disoccupato e la necessità di andare anche a servizio presso chi aveva bisogno di accurate pulizie, aveva altro da pensare.
Ci fece caso anche il farmacista del paesino, cliente e fornitore di "accessori" della Sveltina, detto dottor Staimale, mentre osservava come sempre la strada di sotto dietro i vetri appannati della sua stanza da letto.
E si sorprese anche il dottor Staipeggio, al suo piano di sopra, ad un tempo cliente e fornitore di servizi sanitari della fragile fanciulla.
Ma l'unico che se ne preoccupò, in attesa dentro al bar per offrirle come al solito un caffè ed un sorriso, fu il giovane Cremino, il calzolaio con bottega in piazza, così chiamato perché, pochi anni prima, aveva perso la gamba destra sotto al trattore con cui lavorava la terra ricevuta in eredità dal padre.
Tanto fu allarmato, che scese, con la sua andatura oscillante come un pendolo fra le grucce, fin davanti alla casetta di Sveltina. E, saliti i due gradini, e, percorsi i pochi metri fino alla porta, suonò invano per due volte il carillon del campanello. Una volta girata la casetta fin sul fianco dell'orto, vide, dalla finestra, che la luce accesa all'interno illuminava la Sveltina, riversa sul tavolo, che lo guardava con occhi spenti, immersa nel suo stesso sangue: un'accetta troneggiava orrendamente piantata nella sua nuca.
Nella mente di Cremino passarono in un attimo i momenti passati con lei, la sua dolcezza nel trattarlo come tutti, il suo farlo sentire amato non a metà; quindi, poggiando la testa al muro pianse amaramente.
Tornato sui suoi passi estrasse il telefonino e chiamò il maresciallo Tacchiappo spiegandogli il fattaccio. Poi, mentre era in attesa, appoggiato all'interno del muretto che affiancava i gradini esterni, notò la sua fresca impronta sinistra sulla brina ghiacciata e, a fianco, la stessa gemella impronta di una scarpa destra, che, il sole, appena sbucato dalle nuvole, stava in quel momento sciogliendo.
Le pratiche di polizia gli portarono via la mattinata. Nel primo pomeriggio, seduto dietro al suo banco di lavoro, guardava una delle sue tante inutili scarpe destre, priva della suola che aveva usato per riparare quella che il cane di Don Giovanniunzione gli aveva rosicchiato in canonica.
Entrò in chiesa e si sedette al primo banco, ripensando a quando il giovane sacerdote gli aveva salvato la vita soccorrendolo, per primo ed unico, nel suo incidente.
Don Giovanniunzione, mentre sistemava l'altare, per la messa di suffragio che a minuti avrebbe celebrato in ricordo dello scomparso benestante soprannominato Quantomilasci, gli chiese: "Conoscevi il defunto?". "No,", rispose Cremino, "ma conoscevo la suola di scarpa destra impressa questa notte sul gradino della Sveltina.".
"Mi ricattava Cremino, era incinta di me da un mese, diceva: il solo che voleva farlo senza "protezione". Proprio ora che il Cardinale Caramella mi ha chiamato a Roma. Mi avrebbe rovinato la vita: capisci? Sono scappato dal retro.".
Ed allora, una settimana dopo, mentre il maresciallo Tacchiappo archiviava il delitto come irrisolto per mancanza d'indizi precisi, anche per la nota "attività" della vittima, ed il becchino gettava una palata di terra sulla bara di Sveltina, Cremino, dopo aver sorriso alla scarpa destra sfondata sul banco di lavoro, la gettava nel secchio dei rifiuti.
Morale della storia: beati gli ultimi, primi permettendo.
Maurizio Silenzi Viselli