Sepulveda non c'é più, il maledetto Corona Virus ha portato via con sé anche lui, uno dei miei preferiti scrittori contemporanei. La notizia é stata data ierisera per radio e TV ed oggi l'Huffington-post lo ricorda così:
"Luis Sepúlveda è morto per coronavirus. Lo scrittore era ricoverato da fine febbraio in ospedale a Oviedo dopo aver contratto l’infezione. Avrebbe compiuto 71 anni il 4 ottobre prossimo. A riferire la notizia del decesso è l’agenzia di stampa spagnola Efe, che cita fonti vicine all’autore.
Sepúlveda, che viveva da diversi anni nella città di Gijon, aveva partecipato a fine febbraio a un festival letterario in Portogallo, dove stato accompagnato dalla moglie. Dopo l’evento, entrambi avevano soggiornato a casa di alcuni amici e poi erano tornati in Spagna, iniziando ad avvertire sintomi. Anche la moglie era stata tenuta sotto controllo, mentre lo scrittore era stato posto in isolamento presso l’Ospedale universitario centrale di Oviedo.
Luis Sepúlveda era nato a Ovalle, in Cile, il 4 ottobre del 1949. Autore di oltre 20 romanzi, libri di viaggio, saggi e sceneggiature, Sepulveda vinse il Premio Tigre Juan del 1989 con il suo romanzo ‘Il vecchio che leggeva romanzi d’amore’ ed il Premio Primavera de Novela nel 2009 con ‘L’ombra di quel che eravamo’.
"Qualche sera fa, in uno dei pochi programmi apprezzabili che la RAI ci ammannisce di tanto in tanto, è apparso Louis Sepùlveda, lo scrittore cileno che in gioventù fu vicino a Salvador Allende condividendone i sogni rivoluzionari e grande amico di Gabriel García Márquez che lo indusse a diventare uno scrittore. Come al solito il suo intervento nella trasmissione che verteva sull’importanza del libro è stato particolarmente coinvolgente. A me è venuta in mente la lettura di un suo libro dato alle stampe in Italia dall’Editore Guanda nel 2011 dal titolo “Ultime notizie dal Sud”, nel quale descrive un suo viaggio nel sud dell’Argentina insieme al fotografo Daniel Mordzinski, argentino di Buenos Aires. Ricordo che in uno dei capitoli del libro Sepùlveda racconta dell’incontro fatto nella “steppa patagonica” con un calabrese costruttore di violini. Il racconto mi aveva tanto sorpreso e penso che piacerà anche a voi, cari amici, leggere le impressioni del bravo scrittore cileno."
<<Nella steppa patagonica si sta fra la terra e il cielo. Questo, insieme all'immutabile pianura, permette di vedere qualunque cosa, oggetto o dettaglio, per lontano che sia, e tutto acquista un carattere nuovo, straordinario.
L'automobile aveva un mangianastri e noi una cassetta di Jorge Cafrune. Facemmo i primi trenta chilometri cantando in coro a squarciagola: «L'Uruguay non è un fiume ma un cielo blu che passa », e non ci dispiacque che il vento cambiasse umore e si trasformasse in raffiche che scuotevano la macchina sollevando cortine di polvere ai lati. Guardavamo la strada solitaria, non avevamo incrociato nessun altro veicolo, persona o animale, finché non scorgemmo qualcosa all' orizzonte confuso nel polverone.
Un uomo camminava nella nostra stessa direzione.
Lo raggiungemmo. Era giovane, aveva lunghi capelli neri, baffi folti su un sorriso amichevole e un paio di occhiali da motociclista per proteggersi dalla polvere.
li mio socio abbassò il finestrino e lo salutò con un «Buongiorno, amico» a cui l'altro rispose con un ilare: «Lo sarà di sicuro ».
«Dove va di bello?»
«Vado avanti, come quasi tutti» replicò lui.
«Una logica schiacciante» commentò il mio socio, e lo vedemmo proseguire. Si muoveva con scioltezza, come se si godesse con particolare piacere quella camminata in mezzo al vento e alla polvere. A tratti si portava una mano sopra gli occhiali a mo' di visiera e scrutava l'orizzonte. Lo raggiungemmo di nuovo.
«Cerca qualcosa? »
Si fermò, tolse gli occhiali da motociclista e ci osservò con calma prima di rispondere.
«Sto cercando un violino.»
Perché no? Ci può esser qualcosa di più sensato che cercare un violino in mezzo alla steppa? Se avesse risposto che cercava un ago, avremmo dedotto che si trattava di un eremita che era meglio lasciare solo, ma un violino è una metafora della dolcezza o della tristezza, perciò gli rispondemmo che negli ultimi trenta chilometri non ne avevamo visto nemmeno uno.
«Non mi stupisce, ma io lo troverò. Chi cerca trova. »
Allora parcheggiammo l'automobile lungo la strada e ci unimmo alla ricerca.
Dopo aver camminato per un paio di chilometri in mezzo a quel polverone atroce, senza scambiare neppure una parola, ascoltando il sibilo del vento e anche il vasto repertorio dello sconosciuto che fischiettava di tutto, dalle canzoni di Silvio Rodriguez alla Cavalleria rusticana, giungemmo alla conclusione che cercare un violino in quelle condizioni era particolarmente difficile. Vedemmo pecore, teros, altre pecore, ciuffi di calafate, ma niente che somigliasse a uno strumento a corde. Eppure il sorriso di quel tizio restava inalterabile, come lo zelo con cui continuava a cercare.
«Ma questo violino quando l'ha perso, amico?» «Chi ha detto che l'ho perso? Come facevo a perderlo se ancora non l'ho trovato?» ribatté in un' altra schiacciante dimostrazione di logica.
Continuammo a camminare, cercando il violino con gli occhi mezzo chiusi per evitare la polvere che si infilava da tutte le parti, ma che non infastidiva quell'uomo, grazie ai suoi occhiali.
«Hai un nome? » domandò il mio socio.
(foto: Il calabrese fabbricante di violini)
«Certo, sono un cristiano come tutti gli altri. Però, anche se ce l'ho, mi chiamano il Tano perché il mio vecchio era tano*. Veniva dalla Calabria. Ehi, se non volete continuare a cercare, nessuno vi obbliga ad accompagnarmi. »
Non è giusto contraddire un uomo impegnato in un compito serio come quello di trovare un violino a sud del 42° parallelo, perciò continuammo quella marcia lenta. Vento, polvere e ancora vento. Ogni tanto il mio socio e io ci guardavamo e ci dicevamo in silenzio: «Altri due chilometri e poi torniamo alla macchina », finché il tipo non affrettò il passo costringendo ci prima a trottare e poi a correre fino a una montagna di legname ammucchiato in mezzo alla steppa. Erano resti di staccionate, rami secchi, pezzi di traversine delle ferrovie, tutto sistemato come per accendere un gigantesco falò, e a giudicare dalla polvere che lo copriva era lì da un pezzo.
Il Tano si tolse il giubbotto e cominciò a separare i legni. Li spolverava, li annusava, ci batteva sopra con le nocche avvicinando l'orecchio, finché non trovò un resto di traversina e gli dedicò particolare attenzione colpendolo con un minuscolo martello d'argento. Allora si tolse gli occhiali da motociclista e con gli occhi lucidi per l'emozione abbracciò il pezzo di legno.
«Lo abbiamo trovato, ragazzi! Erano mesi che lo cercavo e finalmente l'ho trovato» gridò esultante e ci abbracciò, e anche noi ci abbracciammo festeggiando la scoperta.
Il pezzo di legno doveva pesare una settantina di chili e tutti e tre insieme lo portammo fino alla strada. Incurante della fatica, il Tano continuava a rallegrarsi per la sua fortuna. Ci spiegò che il caso lì non c'entrava niente, perché sapeva che per la costruzione delle ferrovie, del vecchio espresso patagonico, gli inglesi non solo avevano raso al suolo i più grandi boschi della Patagonia andina, ma avevano anche importato legname dall'India. Legni pregiati, legni nobili, legni fatti per la musica, assicurava il Tano.
Una volta sulla strada, il mio socio gli chiese come pensava di trasportare quella pesante traversina. «Passerà qualcuno, un camion, un carretto. Non ho fretta» rispose senza smettere di accarezzare il suo tesoro.
«Se vuoi, vado a prendere la macchina» mi offrii. «Fantastico, ragazzi! Voi ci portate a casa e io ricambio il favore con un bell' agnello alla griglia. » Non dimenticheremo mai il Tano che, sul sedile posteriore, guardava con tenerezza il suo pezzo di legno cantandogli canzoni e augurandogli un dolce futuro nelle mani di un'interprete bionda dalle dita affusolate.
Dopo quattro ore di viaggio ci fermammo davanti a un cartello con la scritta: CUESTA DEL TERNERO 5 KM. Da lì partiva una stradina che ci portò a una spaziosa casa di legno dipinta di giallo ocra.
«Siamo arrivati. Benvenuti, ragazzi.»
Entrammo in una casa-laboratorio ordinatissima, impeccabile. Da una parte, dietro un grande banco da lavoro su cui si vedeva un contrabbasso fissato con morse ed elastici, si allineavano utensili e ferri vari di un' attività antica e nobile. Accanto, dei barattoli di ceramica sfoggiavano etichette con nomi che rievocavano 1'alchimia o qualche altra perduta arte medievale: aloe, trementina, gommagutta, sangue di drago, anima di mare.
«Un po' di musica, ragazzi?» domandò il Tano e Vivaldi cominciò a risuonare a sud del 42° parallelo.
Il Tano era un liutaio ed era giunto in Patagonia nel 1980, convinto che nei boschi andini avrebbe trovato il legno adatto a creare meravigliosi strumenti a corda. Allora aveva vent'anni e fuggiva dall'orrore insediato a Buenos Aires dalla dittatura. Si era cosÌ formato in Patagonia, insieme agli alberi vivi e alle rovine dei boschi sacrificati in nome di un progresso che aveva favorito pochi allevatori, e che poi era scomparso senza spiegazioni. Conosceva ogni segreto della crescita dei tronchi, degli effetti del vento sull' essiccazione, delle minime sensuali possibilità acustiche nascoste nei condotti della linfa, del benefico effetto esercitato da certi funghi che danno elasticità, e allo stesso tempo si era laureato, da perfetto autodidatta, in Storia universale della musica.
La sua casa-laboratorio era priva di elettricità, come tutte le altre case lungo la strada, perché in quell'angolo del villaggio globale non era ancora arrivata e chissà se i suoi fili sarebbero mai giunti fin lì, ma a lui non importava. Il Tano era dotato di due mani creative che avevano deviato un ruscello, avevano costruito un ingegnoso meccanismo per sfruttare l'energia dell' acqua e gli avevano regalato una minicentrale idroelettrica per far funzionare i suoi macchinari, oltre a fornire corrente al suo impianto stereo.
Passammo il pomeriggio e la notte a casa del Tano.
Mentre 1'agnello si dorava sul fuoco, ci parlò di sua moglie e delle figlie, che vivevano lontane perché a questi abitanti del villaggio globale nessuno aveva chiesto se avevano le scuole. Più tardi, fra un mate e l'altro, lo vedemmo lavorare con spazzole di bronzo sulla traversina, finché non apparve un acceso color rosso: il cuore vivo e palpitante di un violino.
Fuori il vento ululava la sua invidia. Dentro, il Tano ci mostrava i segreti del legno spiegando nei dettagli la grande rigidità delle venature, che una volta tagliate avrebbero conferito alla parte una giusta flessibilità. Quel legno, che era abete rosso, sarebbe diventato la cassa armonica su cui si sarebbe innestato il manico con una parte di ebano per la tastiera. Poi, continuò il Tano, sarebbero entrati in azione gli alesatori per inserire i piroli.
Malgrado il vento, uscimmo a fumare guardando le stelle. Senza dare importanza alla cosa, il Tano ci
confidò che era un liutaio di grande prestigio. Aveva un contratto in esclusiva con l'orchestra sinfonica di Berlino per riparare e costruire strumenti unici, irripetibili, che suonavano per la prima volta nella grande solitudine della Patagonia.
Il giorno dopo partimmo molto presto. Bevemmo l'ultimo mate con il Tano e lo lasciammo tutto preso dal suo lavoro, dal suo legno, dal suo violino, che un giorno rallegrerà uno spirito angosciato, o lo caricherà di maggiore nostalgia latinoamericana se il musicista che lo suona è come Becho, quello della milonga di mio fratello Alfredo Zitarrosa: Becho vuole un violino che sia uomo / che non nomini amore né dolore ...>>
*Tano: Soprannome dato agli immigrati italiani in Argentina e Uruguay. (N.d. T.)
(brano tratto dal romanzo “Ultime notizie dal Sud” di Luis Sepulveda e con le foto di Daniel Mordzinski edito da Guanda editore, Parma)