Una pagina interessante della storia del Meridione d’Italia è quella collegata ad un certo tipo di edificio che ancora oggi caratterizza i paesaggi agricoli: la masseria (nella foto d'archivio: antica masseria nel comune di Pietrapaola - CS). Le sue origini risalgono al XIII secolo, durante il passaggio dal periodo svevo a quello angioino, quando, su sollecitazione del potere centrale, cominciò a diffondersi il sistema detto delle “masserie regie”, insediatesi dove spesso preesistevano, già dal periodo altomedioevale, delle massae fortificate, cioè dei massicci complessi fondiari legati ad un signore o al potere ecclesiastico. Anche nel resto del Regno la masseria cominciò ad essere il fulcro dell’organizzazione agraria di vasti latifondi. Oltre alla famiglia del massaro, la masseria ospitava aratori, mietitori, raccoglitori, eterogenee figure lavorative che, richiamate durante i periodi di semina e raccolta, risiedevano in semplici ripari in pietra, ricoperti d’un tetto di paglia e fanghiglia, nei pressi dell’edificio centrale. La masseria non era solo un centro abitativo e di attività economiche, ma, con la sua struttura da fortilizio, chiuso verso l’esterno e con le aperture tutte rivolte all’interno del grande cortile, era una vera e propria struttura difensiva contro le incursioni di pirati o anche di briganti. Le riforme borboniche, nel Settecento, con l’esproprio di numerosi feudi appartenenti alla Chiesa, incrementarono il latifondo e ciò diede un rinnovato slancio alla costruzione delle masserie.
Oggi, completamente immerse nelle campagne, giacciono dimenticate coi loro cortili ampi, le mura robuste ed alte, le finestre graziose. Manlio Rossi Doria, all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento, ne contava ben 10.000 in tutto il Sud. Lungo le grandi estensioni pianeggianti, prive o quasi di alberi, del Tavoliere, delle Murge, della Capitanata, ma anche lì dove i terreni sono stati dotati di infrastrutture irrigue come nel Metaponto o in Campania, si notano ancora le masserie spesso abbandonate a se stesse, a volte riconvertite in agriturismi o in lussuosi relais.
Grazie agli studi di Aurelio Lepre (Terra di Lavoro nell’Età Moderna, 1978) possiamo ricostruire l’annata agraria nella masseria di Casicella, nel territorio di Capua, sul finire del Seicento:
Oltre ai cereali, legumi e vino vi si coltiva anche la canapa. Ad agosto c’è il raccolto: la canapa, dopo essere stata “scippata”, viene messa a “maturare” nelle acque del lago Patria; tolta dall’acqua si raccoglie poi in fasci e si fa “maciuliare”. In qualche anno la “maciulatura” della canapa si fa a settembre. Talvolta ad agosto si ripulisce il campo di cardi e “rapeste”, lavoro, questo, che è fatto da donne o “figliole” e può essere eseguito anche a settembre. In alcuni anni, nel 1690, 1692 e 1695 a settembre si raccoglie il grano d’India, ma in genere in questo mese si fanno soltanto lavori di minor conto: in particolare si accomodano i vomeri per la prossima aratura e se ne comprano di nuovi. Ad ottobre c’è la “vendemmia e imbottatura”. In questo mese si acquistano anche attrezzi utili per la vendemmia. Novembre è il tempo della semina del grano e dell’orzo. Al lavoro vengono impiegate le giumente della masseria, ma i salariati fissi non sono sufficienti per condurle e si fanno venire i “delineatori” che le conducono ed i “figliuoli” che le tirano. Gli uomini della masseria impiegati nella “delineatura” sono momentaneamente sostituiti da aratori fatti venire da fuori e che, a differenza dei “delineatori” che ricevono due carlini per opera, cioè per giornata di lavoro, ne ricevono soltanto uno. Il massaro sparge il grano, accompagnato da una donna che gli porge la semenza. Altri lavori effettuati in questi giorni sono la “scalzatura” degli alberi nel seminato e la ripulitura dei campi dalle erbacce (la “mondezza”), lavoro eseguito da donne e qualche volta da figliuole. A dicembre riprendono i lavori nei vigneti: si “calano” viti, fanno fosse, e piantano pioppi ed olmitelli. Si riparano anche le siepi e si porta a macinare a Capua il grano che servirà per i lavoratori nella masseria. A gennaio, mese in cui, di solito, si fanno molti piccoli lavori, come riparazioni di siepi, negli anni 1686, 1690, 1693, 1694 e 1696 si fa anche la “solcatura” e “zappoliatura” del grano. Talvolta questi due lavori si fanno a febbraio, quando si fa anche la “puta” (soltanto nel 1691 e nel 1695 essa avviene a marzo). Talvolta già a febbraio si provvede a procurarsi i mietitori per il futuro raccolto e si versa una caparra per impegnarne il lavoro. A marzo e ad aprile si zappano il panico, le fave, ed i “marzulli” (ceci e fagioli), lavoro in cui sono impiegate le donne, guidate da un uomo, chiamato “caporale”, che le guida e sorveglia. Ad aprile, talvolta a maggio, si zappano l’orzo e il grano. Qualche in aprile si catturano i sorci, che potrebbero danneggiare il raccolto: in questi mesi la spesa per la cattura dei sorci è piuttosto frequente. A maggio gli uomini falciano il prato, mentre le donne zappano “marzulli” e canapa: talvolta vengono già i mietitori a mietere l’orzo. Ma, in generale, la mietitura dell’orzo, come quella del grano, si fa a giugno; insieme con i mietitori vengono nella masseria anche i lavoratori che formano i covoni. In questo mese (o anche a luglio) le donne mietono le fave, inoltre raccolgono panico e marzulli e “accannano” il grano d’India.
Angelo D’Ambra
da: www.historiaregni.it