Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 14, 23-29
23 Rispose Gesù e gli disse: Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo da lui e faremo dimora presso di lui. 24 Chi non mi ama non osserva le mie parole. E la parola che ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha inviato. 25 Di queste cose vi ho parlato dimorando presso di voi, 26 ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre invierà nel mio nome, Egli vi insegnerà tutte le cose e vi farà ricordare tutte le cose che vi dissi io. 27 Pace lascio a voi. La mia pace do a voi. Non sia turbato il vostro cuore, né sia spaventato. 28 Ascoltaste che vi dissi: me ne vado e vengo da voi. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me. 29 E adesso l’ho detto a voi, prima che accada, affinché quando accadrà, crediate. 30 Non parlerò più di molte cose con voi. Viene infatti il capo di questo mondo e in me non ha nulla.
Lectio di don Alessio De Stefano
Amare ed essere amati(14,15-26) – L’intera storia di relazione con Gesù è stata per loro una storia di amore. Quì, però, vengono chiarite con nettezza le condizioni di possibilità e i frutti dell’amare autentico. Condizione di possibilità perché la relazione d’amore col Maestro continui, dopo la Pasqua, è «osservare i suoi comandamenti» o la «sua parola» (vv. 15.21.23.24), che coincidono col comandamento nuovo dell’amore reciproco (13,34-35), sintesi perfetta della legge e spazio sicuro della vita (cfSap 6,12-20). Se l’amare fino alla fine sintetizza e riassume l’intera vita, azione e predicazione di Gesù (13,1), amarsi reciprocamente, secondo il suo comandamento, è l’unica condizione per continuare ad amarlo e, così, a lasciarsi amare da lui. Frutto dell’obbedienza al suo comandamento, infatti, è l’esperienza di essere amati da Gesù e dal Padre (vv. 21.23) e, in questo amore, l’esperienza della rivelazione intima e personale di Gesù stesso (v. 21). Nello spazio scavato dall’assenza di Gesù, andato a preparare un posto nella casa con «molte dimore», il vero spazio della comunione viene in realtà aperto nell’intimo dei discepoli in atto di amarsi reciprocamente: essi stessi, obbedendo all’amore, diventeranno «dimora» permanente del Padre e di Gesù (v. 23) e faranno un’esperienza di rivelazione non accessibile al «mondo», inteso come quella forma di esistenza umana, personale e collettiva, che «ama» solo «ciò che gli appartiene» (7,7; 15,19) e non è in grado di accogliere l’alterità divina. La verità della rivelazione messianica, dunque, non è smentita e invalidata dal fatto che il«mondo» non ne sia ancora interamente e pubblicamente coinvolto (vv. 19.22); essa, d’altra parte, non è nemmeno una realtà esoterica e privata perché spinge i discepoli a vivere l’amarsi reciproco proprio nel mondo, atteso, a sua volta, all’appuntamento della fede e dell’incontro con la rivelazione dell’amore (cf 17, 11.15.18.21.23). Il dono dello Spirito Santo, Spirito di verità agli antipodi del mondo, «altro paraclito» dopo Gesù (cf 1Gv 2,1), chiamato a fianco dei discepoli per sostenerli nella testimonianza che davanti al mondo dovranno svolgere a favore di Gesù e della sua rivelazione, è l’altro frutto dell’amare (vv. 16-18.26) e, al contempo, maestro nell’amare. La preghiera che Gesù eleva al Padre per i discepoli, sicuro di essere esaudito, ha come contenuto proprio il dono dello Spirito, la cui presenza e la cui azione determineranno e qualificheranno esattamente lo spazio ecclesiale, quello del «dimorare» divino «con», «presso» e «nei» discepoli, comunione che non conosce lacerazione né fine temporale perché espressione della vita stessa di Dio donata loro dal Risorto. Nello Spirito Gesù «verrà» a loro, ancora più intimo e custode come prima della fragilità dei discepoli-figli (v. 18). Il tempo ormai breve del «rimanere» di Gesù con i suoi prima della morte (v. 25) è funzionale alla parola che garantisce loro che il tempo che dopo inizierà non segnerà la fine del rapporto col loro Maestro, ma l’inizio di una storia nuova di cui essi saranno protagonisti nel mondo insieme allo Spirito che continuerà a perpetuare in loro la memoria di Gesù e a insegnarne la parola. La morte del Servo, dunque, non è che la via perché la sua vita sia la vita dei molti e il suo Spirito lo Spirito sempre presente sulla sua discendenza a segno dell’alleanza perenne del Signore con il suo popolo redento (cfIs 59,21).
Credere all’amore 14,27-31 - La differenza tra Gesù e il mondo, tra l’identità amante di Dio rivelata da Gesù e la modalità violenta e abusiva del mondo, è ciò che conduce Gesù alla passione e alla morte. Gesù non viene condannato a morte perché ha agito nel mondo secondo le logiche di potere del mondo: chi lo governa, e dalla sua morte sarà giudicato e detronizzato, non può trovare in Gesù motivo alcuno di accusa e di condanna (cf 8,46; 12,31). Se Gesù si lascia consegnare e accetta di morire è perché il mondo possa comprendere e riconoscere in lui la differenza tra il regno di Dio e il mondo, tra l’amore del Padre e la violenza. Sullo sfondo della sofferenza ormai imminente e della separazione non più procrastinabile a lungo (vv. 30-31), le parole che sigillano il discorso sull’«andarsene» di Gesù sono, quindi, di nuovo parole di incoraggiamento, rassicurazione e conforto. La morte di Gesù, come la morte del Servo, è strumento di «pace» per i credenti (Is 53,5; 54,10.13): non una pace costruita mediante il dominio violento degli uni sugli altri, ma la pienezza di vita, di comunione e di bene prodotta dal risanamento profondo delle ferite che il mondo infligge. Fondati sulla parola sicura di Gesù i discepoli possono ancora amarlo e credere al suo amore scoprendo nella sua morte non la fine di tutto ma la via al Padre, via della vita che porterà loro gioia e pace senza fine (cf 16,20-23).