Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 21,5-19
5 E mentre alcuni dicevano del tempio che era adorno di belle pietre e di donativi, disse: 6 Di queste cose che guardate, verranno giorni nei quali non resterà pietra su pietra che non sarà distrutta. 7 Ora lo interrogarono dicendo: Maestro, quando dunque sarà questo e quale il segno quando staranno per avvenire queste cose? 8 Ora egli disse: Attenti a non essere ingannati, poiché molti verranno nel mio nome dicendo: Io sono! e: il momento è vicino! Non andate dietro loro. 9 Quando udirete di guerre e rivolte, non atterritevi, perché bisogna che queste cose avvengano prima, ma non è subito la fine. 10 Allora diceva loro: Si leverà nazione contro nazione e regno contro regno, e ci saranno grandi terremoti e qua e là carestie e pesti, e ci saranno terrori e segni grandi dal cielo. 12 Ma prima di tutto questo metteranno su di voi le loro mani e vi perseguiteranno consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, condotti davanti a re e governatori a causa del mio nome; 13 questo sfocerà per voi in testimonianza. 14 Ponete dunque nei vostri cuori di non premeditare come difendervi; poiché io vi darò bocca e sapienza a cui non potranno opporsi o contraddire tutti quanti i vostri avversari. 16 Ora sarete consegnati e da genitori e fratelli e parenti e amici, e faranno morti tra voi, 17 e sarete odiati da tutti a causa del mio nome. 18 Ma neppure un capello del vostro capo perirà. 19 Nella vostra pazienza guadagnerete le vostre vite.
Lectio di don Alessio De Stefano
Nel tempio Gesù pronuncia il suo ultimo discorso prima della Pasqua e della consegna. Si tratta di un discorso profetico/escatologico sulla fine di Gerusalemme che egli tiene ai discepoli. Le fragili pietre (vv. 5-6) – Un po’ sadicamente Gesù prende il via ascoltando le parole ammirate di alcuni che guardavano la bellezza del tempio, costruito con pietre stupende e squadrate, dagli esperti architetti di Erode il Grande. Il secondo tempio era stato ricostruito nel post-esilio da Zorobabele e da Giosuè (cf Esd 5,2) che usarono del legname per farlo (cf Esd 5,3), ma la sua progettazione era stata scritta secondo una visione in Babilonia dal profeta Ezechiele in maniera dettagliatissima (cf Ez 40-43). Il profeta cita la presenza di “pietre squadrate” descrivendo l’altare dell’olocausto: «C’erano, poi, altre quattro tavole di pietre squadrate per gli olocausti, lunghe un cubito e mezzo, larghe un cubito e mezzo e alte un cubito: su di esse venivano deposti gli strumenti con i quali si immolavano gli olocausti e gli altri sacrifici» (Ez 40,42). Chi guardava non doveva certamente riferirsi a queste pietre, bensì a quelle con cui il tempio era edificato - con la chiara menzione dei doni votivi (anathémasin kekόsmetai) - cioè degli sponsor! - ma è interessante pensare che Luca volesse qui alludere all’altare dei sacrifici, “pietra” miliare della religione del secondo tempio, che proprio sulla “pietra” dei sacrifici si fondava. «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta» (v. 6), interviene Gesù, come un vero guastafeste. Aspra la sua sentenza che riporta alla memoria una ferita mai cicatrizzata, quella della distruzione del primo tempio che fu di Salomone. Dolore e frattura di cui i giudei non smettono di fare memoria. Gesù va a riaprire la vecchia ferita, annunciando un nuovo disastro, un’identica, reiterata rovina. Ma, allo stesso tempo, il Maestro evoca la fine di una religione che si fonda sui sacrifici e su di un sacerdozio chiuso ed ipocrita, incapace di dare effettiva stabilità a Gerusalemme. Sarà tale sacerdozio, con i suoi inutili e illusori sacrifici, ad essere spazzato via insieme alle pietre del tempio trascinando con sé tutta la città (cf v. 20). La forma in cui egli annuncia questo oracolo di condanna è, ancora una volta, sapienziale: «Gli domandarono: Maestro quando accadrà questo? Quale sarà il segno?». Ed ecco che il Maestro formula la risposta con il genere letterario apocalittico, ma insegnando a distinguere tra quelli che saranno i “segni” e ciò che sarà la non imminente parousia.
Segni lontani (vv. 7-10) - L’ansia millenaristica è una sorta di capriccio che prende ogni popolo ed ogni stagione della storia. Ma che prendesse gli abitanti di Gerusalemme in quel periodo è cosa comprensibile. La Palestina era diventata una provincia romana, presidiata da centurie e sottoposta ad un rigoroso controllo politico e militare da parte degli occupanti. Un clima che in Giudea doveva essere da tempo respirato, poiché - dopo la ricostruzione del tempio - la regione era stata sempre alla mercé, diretta od indiretta, di potenze straniere. A questa situazione il popolo reagiva spesso con proteste, rivolte, sommosse, tentativi di rivoluzione, che vedevano negli zeloti una loro anima primaria. Il conflitto latente o patente era, quindi, causa di incertezza e provocava il timore che, da un momento all’altro, un semplice incidente potesse far precipitare la situazione. La potenza di Roma era molto minacciosa e avrebbe potuto scatenarsi come, del resto, nel 70 d.C. accadde. Chi fa la domanda a Gesù vuole, probabilmente, avere una predizione della fine, una notizia che solo un profeta avrebbe potuto fornire.
Ma il discorso di Gesù va oltre la predizione e tocca i punti chiave della relazione religiosa tra Gerusalemme e il Dio dell’alleanza. I suoi uditori erano curiosi di conoscere i segni che avrebbero potuto annunciare la fine, ma Gesù gli risponde per viam negationis, gli dice che tanti eventi tragici che essi potrebbero considerare dei segni, di fatto non lo sono e in essi non si nasconde alcun messaggio soprannaturale. Una netta squalifica della tendenza a vedere in ogni cosa un segno, a cercare meta-significati su fatti - come la guerra e la rivoluzione - che non vengono certo da Dio. Come non vengono da Dio il terremoto, la pestilenza, o la carestia. Sono questioni umane e naturali, dove Dio non c’entra e con cui egli non viene, certo, a punire. Altrettanto Gesù squalifica l’ingenuità di chi crederà - un domani, nelle comunità ecclesiali - in coloro che verranno, spacciandosi per il Signore stesso, approfittando della debolezza dei cristiani. Gesù invita ad essere concreti, a seguire una via ragionevole e dignitosa della fede in lui, anche nei tempi di attesa e di paura.
Segni vicini (vv. 12-19) - Gesù invita tutti a mettere i piedi per terra, a preoccuparsi del futuro prossimo piuttosto che della fine ancora lontana. Questo è un tempo molto duro per “voi”. Un pronome che Gesù usa in un discorso diretto con i suoi discepoli, declinato, come sempre in Luca, sullo stile deuteronomico, familiare ed esclusivo, mentre sino a poco prima il Maestro si rivolgeva alle folle ed ai discepoli indistintamente. Di fatto le predizioni pronunciate qui da Gesù diventano cronaca nel libro degli Atti. Un modo in cui Luca cerca di tranquillizzare le comunità apostoliche dove i cristiani si vedono perseguitati, consegnati alle sinagoghe, trascinati in prigione “per causa mia”, per la loro fede nel Signore morto e risorto. Tutto ciò il Signore stesso l’aveva predetto, ma non sarà la fine! Si tratta di una pedagogia di rassicurazione, per dire di stare tranquilli e non perdere la via della fede in lui pur nelle avverse circostanze. In poche righe Luca anticipa tutte le violenze, le persecuzioni, le vicissitudini che le chiese cristiane subiranno e che verranno raccolte in Atti e nelle Lettere apostoliche (cf 2Cor 11,21-33), ma che nessuno dovrà interpretare come segni della fine. Quel tempo non sarà di rovina, ma, al contrario, di salvezza (cf vv. 18-19). Il Signore, infatti, li difenderà tutti e darà loro lingua e sapienza per vincere i processi che verranno loro intentati nei tribunali giudaici o romani (cf Paolo in At 21,27-40; oppure gli altri apostoli e Pietro in At 5,17-34; 12,3ss). Quanto non farà per salvare se stesso (cf Lc 23,9), Gesù farà, invece, per i suoi apostoli.