(foto: don Ennio Stamile) «Un vero padre. Capace di autentico e faticoso ascolto, mai superficiale o carico di pregiudizi, ma accogliente e consolante»
Il titolo di queste brevi note, Un prete universale, lo traggo da uno dei numerosi volumi scritti da don Ignazio Schinella, che proprio il 2 novembre è ritornato nella dimora del Padre, mentre era alla guida della sua auto colto da un improvviso malore a poche decine di metri di distanza dalla sua casa natale di Arena, in provincia di Vibo Valentia. Attraverso le pagine di questo volume don Ignazio raccontava la santità di don Francesco Mottola, suo confratello diocesano, di cui è in corso il processo di beatificazione. Una santità maturata attraverso quella «spiritualità della religione in concreto, nella nostra concretezza storica. Essa - amava ripetere don Mottola - è stile cioè carattere, arte. Se l’arte, sintesi di idee e di storia, non è personale, non è arte. Le idee trascinano le persone e creano il clima storico».
Chi come me ha avuto la fortuna di frequentare la sua “cattedra di umanità”, oltre che quella scientifica tenuta nelle facoltà teologiche San Pio X di Catanzaro e San Tommaso di Napoli, ha compreso nel corso degli anni come la spiritualità di don Mottola avesse profondamente solcato il cuore e la mente di don Ignazio con «quell’idea suprema che è Cristo».
Ce lo svela egli stesso dedicando uno dei suoi primi volumi all’arte di Imparare il Cristo, vivendo quello Spazio dell’amore che è la preghiera, “luogo” in cui «l’eternità entra nel tempo». Uno sguardo contemplativo che ha sempre accompagnato la vita di don Ignazio, intanto per il gusto della ricerca della verità che egli ha sempre cercato di trasmettere.
(foto: Don Ignazio a sinistra, con un altro grande amico, anch'egli scomparso 2 anni fa, don Natale Colafati) Poi per l’incanto della poesia di Terra Margia, dove, profumi, volti, storie e colori della sua terra, fluivano in un armonioso canto poetico.
Chi entrava nelle sue stanze, sia di padre spirituale che di rettore del Seminario San Pio X, era come immerso “quasi soffocato” da migliaia di volumi, frutto delle sue mai concluse ricerche scientifiche, teologiche, spirituali e di quella amata pietà popolare di cui è stato anche sapiente cantore. Un piccolo-grande uomo, don Ignazio, sempre alla ricerca di quella Verità che nessuno può dire di possedere e che continuamente invita ogni uomo a dissetarsi “gratuitamente” alla sua perenne fonte. Un homo viator, dunque, che la grazia ha reso assai fecondo, a tal punto da generare ed accompagnare nelle fede generazioni di presbiteri e di fratelli e sorelle laiche. Sì, un vero padre! Capace di autentico e faticoso ascolto, mai superficiale o carico di pregiudizi, ma accogliente, consolante, in grado di leggere e penetrare i moti dello spirito in continua tensione con la fragilità della condizione umana.
Viviamo il dramma di una società senza padri, ci ricorda Massimo Recalcati. Spesso capita a noi presbiteri di essere salutati con questa parola: “padre”. A volte essa ci scivola addosso, non le diamo il giusto peso, vuoi perché troppo distratti, oppure perché ci intimorisce, richiamando le nostre responsabilità. Eppure già Omero metteva sulle labbra di Telemaco quella frase che risuona oggi ancora sempre più profetica: «Se gli uomini potessero scegliere ogni cosa da soli, per prima cosa vorrei il ritorno del padre». Il desiderio di Telemaco non è desiderio nostalgico che il padre ritorni, ma che vi sia “padre”. I proci, giovani principi, simbolo della giovinezza calpestano tutto, umiliano, violentano, dichiarano morto Ulisse, togliendogli ogni forma di rispetto. La “notte dei proci” non conosce intervallo, scansione, ritmo. Forse mai come oggi la stiamo vivendo «in ogni ambiente in cui si plasma l’uomo».
L'ultima frase di Freud poco prima di morire è una citazione d Goethe, dedicata al tema dell'eredità: «Ciò che tu hai ereditato dai padri devi riconquistarlo, per ereditarlo davvero».
Ciò significa che l'eredità non è mai passiva ma dobbiamo fare nostro quello che abbiamo ricevuto affinché sia davvero nostro. Dobbiamo impegnarci a riconquistare quello che i padri ci hanno dato per diventare figli, per diventare giusti eredi. Bene, padre Ignazio ci ha lasciato davvero una grande eredità, non solo attraverso i suoi numerosissimi articoli e volumi.
Credo che essa si possa sintetizzare in un condensato semantico di don Mottola che spesso risuonava anche nelle sue profonde omelie, «quanto più si ama, più si è»; che faceva coincidere con l’altra «quanto più si soffre più si è».
Don Ignazio ha vissuto quel «martirio quotidiano o della coscienza», caro a Sant'Atanasio di Alessandria. Nella Chiesa, mi ripeteva un compianto vescovo, monsignor Andrea Cassone, più si hanno responsabilità più si soffre a causa di esse. La Chiesa non è una setta di giusti come qualcuno vorrebbe. Anche in essa prosperano a volte indisturbati i proci, che soffocano carismi creando cordate, appartenenze. Alle Chiese calabresi don Ignazio ha dato davvero tantissimo. Non altrettanto, possiamo dire noi che conosciamo le tante sue numerose vicissitudini, viceversa. Anche in questa “notte dei proci” uomini come don Ignazio, come papa Francesco p.p. (pater patrorum) mantengono viva la speranza che vengano finalmente illuminati e purificati quel bieco carrierismo e quella vuota sete di potere.
Grazie di tutto, caro padre Ignazio.
don Ennio Stamile
referente regionale di Libera Calabria