Questo interrogativo sembra attraversare i saggi raccolti in L’impero in periferia, Galaad Edizioni 2015 - Il libro raccoglie articoli, saggi che Marco Gatto ha scritto tra il 2007 e il 2015 e si compone di quattro parti: le prime due, per usare il linguaggio dell’autore, dal centro dell’impero e le altre due dell’impero in periferia (a parte l’ultimo saggio su Fortini). E’ un libro, che pur nella rapsodia della composizione, ha una sua compattezza. Si respira in ogni pagina la tensione politica dell’autore, e questa è motivazione e forza che si esprime nella scelta degli oggetti di studio e di trattazione. Si diceva motivazione, ebbene l’idea di partenza è che, alla base dell’agire critico, vi sia una sollecitazione della contingenza e del radicamento territoriale, che per l’autore, è il sud (terza e quarta parte del libro).
La cultura in generale, sostiene l’autore, sembra si sia prestata a rappresentare la capacità del capitalismo di penetrare tutti i pori del reale e di modificare la nostra percezione del tempo e dello spazio, mettendosi al suo servizio e perdendo il suo legame con la vita materiale.
La sfida che la teoria (la capacità di orientarsi nel mondo attraverso un sapere critico e costruttivo) si trova davanti è duplice, da un lato la necessità di riabilitare le grandi narrazioni, dall’altro come difendersi dallo scacco di quella grande narrazione che è il capitale, la cui costituzione perenne si esplica nella manutenzione amministrata del sapere e nella spinta verso uno specialismo restrittivo .
Lamenta l’assenza in Italia di una comunità critica in grado di rimettere in moto una politica culturale, ci si sente definitivamente inglobati in un sistema che permette alternative solo fittizie, da qui un disimpegno coltivato. L’intellettuale dovrebbe vivere il presente come storia e il sapere come tentativo rigoroso di comprendere l’incessante moto cui i destini umani sono sottoposti. In una recente intervista il critico militante, sempre che abbia senso usare oggi questo termine, Alfonso Berardinelli, in occasione dell’ uscita del suo Discorso sul romanzo moderno. Da Cervantes al Novecento, ribadisce che la critica in Italia ha perso il ruolo trainante e militante che le era proprio, si è cioè svuotata della peculiare funzione selettiva e valutativa, lasciando spazio all’editoria che ha assunto invece una funzione promozionale.
E, come l’intellettuale, come si diceva sopra, deve vivere il presente come storia , così il romanzo deve poter essere valutato per i suoi legami significativi con la storia.
Le idee di Marco Gatto sulla teoria e sulla critica letteraria sono rinvenibili in tutti i saggi qui pubblicati. In alcuni solo adombrate, in altri dichiarate con forza e argomentate in modo convincente I saggi oggetto di questa lettura sono: il primo, il secondo, il sesto della prima parte, e l’ultimo del libro.
Nel primo: Discorso su marxismo e letteratura (2014), l’autore dichiara inequivocabilmente le sue preferenze (la sua poetica per rubare una espressione della letteratura). Se il marxismo ha ancora oggi la capacità di dire qualcosa sulla letteratura e sugli strumenti per comprenderla, lo deve a due categorie, la totalità rinvenibile in Hegel e nel primo libro del Capitale (pubblicato in tedesco nel 1867 e addirittura a puntate come si faceva con i feuilleton in Francia), e quella di egemonia di Gramsci. Riguardo a Marx, per sfuggire alle banalizzazioni, alla caricatura del materialismo storico marxiano, cita opportunamente un passo della Prefazione che Marx scrive nel 1859 alla sua Per la critica dell’economia politica. (Antonio Labriola sviluppò questo pensiero a cavallo tra otto e novecento per ciò che riguarda il materialismo storico). E più tardi Marcuse, (1978) sensibile al marxismo quanto alla psicoanalisi, ne La dimensione estetica aggiorna i postulati principali dell’estetica marxista. Questi riferimenti potrebbero far pensare al marxismo come ad un insieme di concetti di teorie da relegare nella storia della filosofia e inservibili all’oggi, e per smentire questa tentazione l’autore fa appello a David Harvey che nell’Enigma del Capitale, che è del 2010, dimostra diffusamente come Marx ci parli di un pensiero che si forma grazie all’esperienza della realtà, che fonda se stesso nell’agire e nella capacità di assumersi la responsabilità del cambiamento.
La letteratura che oggi si produce nasce nel cuore del sistema capitalistico ed è legata alle strutture di produzione e inevitabilmente le forme hanno a che vedere con tendenze di dominio, con volontà di amministrazione del consenso..
Il punto, per il marxista, è capire quale sia la posizione dell’opera d’arte nei confronti del mondo che la circonda, in parole povere, se essa ci dà una rappresentazione complessa o riduttiva.
Non esiste un sapere puro neutro. Un testo letterario può dirsi organico o meno all’elaborazione di un’ideologia, può essere concepito come artefice persuasivo di una forma egemonica e naturalmente può essere giudicato politicamente.
Come per Gramsci, gli oggetti letterari, non sono visti come testi, ma come pretesti per discutere del mondo. La critica letteraria diventa critica della cultura, cioè una riflessione sul luogo in cui si realizza l’egemonia e si produce il consenso
I fatti letterari vivono ed esistono nella lotta tra ideologie, ed è attraverso i testi che l’intellettuale prende posizione sul mondo
La letteratura può esprimere un punto di vista sul mondo, alternativo, nuovo, non confermativo, che apre possibilità, oppure come prodotto dominante, cioè come veicolo di un senso comune prevalente e che corrisponde all’ideologia socialmente accettata e/o imposta. Ne deriva che il giudizio sui testi è un giudizio politico, anche quando non è organico ad un’attività partitica.
La critica letteraria marxista si riassume nel tentativo di dar vita ad un’analisi ideologica servendosi degli strumenti della critica letteraria più raffinata: la scoperta di strutture retoriche interne, di certi nessi strutturali che diversamente dal formalismo o strutturalismo (testo autoreferenziale, analisi scientifica del testo) può essere ricondotta su un terreno più propriamente politico.
Esemplare al riguardo il magistero critico di Franco Fortini, l’intellettuale italiano forse più amato da Marco Gatto. Fortini parte da una citazione, da un dettaglio, da particolari minuti, li spiega, li analizza sul piano linguistico o metrico o stilistico o sociologico, per poi passare dal “contenuto di fatto” al “contenuto di verità” in cui giudizio estetico e giudizio politico si fondono.
II Il marxismo come bene di cultura (208-2015)
Nell’ultimo trentennio l’opera intera di Marx viene confinata ad un discorso metodologico, in cui ad emergere è la pluralità degli approcci e la passività della lotta politica, si passa in sostanza dalla critica dell’economia politica a un orientamento filosofico ed estetico, l’inverso di quanto aveva fatto Marx, che era partito da Hegel per approdare al Capitale.(Terry Anderson). Il marxismo occidentale sembra più interessato all’analisi culturale che all’interpretazione dei processi economici e sociali o alla stretta connessione fra la produzione culturale e il modo di produzione, dove spesso è la prima a determinare il secondo.
Già nel 1972 Therborn in Critica e rivoluzione e poi nel 1976 in Scienza, classi e società, pur presentando una mappatura del contesto socioeconomico e culturale entro cui si colloca il marxismo contemporaneo, non può non concludere insieme ad Anderson, Jay, che il marxismo è un pantheon di individui e opere individuali, e anche quando si mostra ottimista rispetto al rinvigorimento dei dibattici teorici, non manca di sottolineare la loro sterilità sociale e politica.
Già in questo saggio sono chiare le simpatie di Marco Gatto (nella foto). Uno, Fredric Jameson, e l’altro Franco Fortini, ma anche e naturalmente Lukacs e Gramsci.
Jameson già in Marxismo e forma uscito in Italia nel 1975, con una prefazione di Fortini, esprime la volontà di confrontarsi con i capisaldi della tradizione dialettica del novecento, al fine di risollevare le sorti di un pensiero che stava cedendo il passo all’egemonia delle micro specializzazioni analitiche ed empiristiche. I lavori successivi sono ispirati ad una tensione verso la totalità. La frammentazione alienante della vita sociale e la prospettiva straniante inaugurata dal crollo delle grandi narrazioni, trovano in una rivitalizzazione della dialettica tra particolare e generale, tra individuale e collettivo una strategia di resistenza e opposizione.
Nel momento in cui il capitalismo multinazionale dissolve il moderno, per approdare ad una totalità peraltro negata, nel momento stesso in cui il capitale si rappresenta come forma esaustiva, tende ad occultare il proprio essere una totalizzazione in corso.
Jameson ritorna ai padri della modernità filosofica, Hegel e Marx, per guardare al capitalismo mediante una vocazione conoscitiva sistemica, capace di riconoscere la totalità delle sue forme e delle sue rappresentazioni.
Il pensiero moderno è sinonimo di pensiero dialettico per contrastare i propositi detotalizzanti della postmodernità. Un genuino pensiero dialettico dovrebbe sforzarsi di mostrare la dinamica della sua espansione e dunque i relativi processi di accumulazione, appropriazione, sfruttamento; frammentando i rapporti sociali, salvaguarda la sua possibilità di presentarsi come unico e realizzato rapporto di produzione.
Per questo autore il postmodernismo rappresenta la logica culturale del capitalismo tardo, così come gli oggetti culturali più recenti si pongono quali allegorie di un modo di produzione che cambia continuamente faccia, e che affina sempre più i suoi strumenti di dominazione.
VI Persistenze della teoria letteraria (2015)
A cosa serve la teoria della letteratura? A poco o nulla. La proliferazione di metodi prima, e teorie poi, gli uni figli minori della sbornia strutturalista degli anni sessanta e settanta, le altre nipoti sparse della decostruzione americana (a proposito della quale un raffinato intellettuale come George Steiner intravede una sorta di rivolta edipica) e, di un marxismo spoglio di pretese totalizzanti, riflette un disorientamento collettivo, una incapacità di darsi punti di riferimento per poter calibrare in modo non troppo superficiale il lavoro teorico.
Il critico letterario non deve essere un accademico, ma necessita della padronanza “dilettantesca” direbbe Said, di ampi spazi di sapere.
Questa proluvie di correnti teorico politiche, di metodologie di lettura, le più disparate, riflettono l’immagine di una teoria che si fa essa stessa genere (mi viene in mente quello che scrisse Fortini di una pagina di Roberto Longhi maestro indiscusso della critica d’arte: prosa laccata d’oro, odore di dente cariato); disciplina sottomessa al diktat della specializzazione, perdendo il contatto con la realtà, con lo spazio della politica, ha perso quella capacità di immaginazione sociologica che non solo le dava una dignità culturale ma la faceva essere protagonista di un lavoro culturale che poteva dirsi militante e costruttivo.
La teoria è diventata un’articolazione della così detta “cultura”, fenomeno salutato negli anni ottanta come liberatorio, ma che ben presto si è rivelato nella sua natura aderente al capitalismo contemporaneo, che sembra offrire illusorie etichette di garanzia per la “libertà d’espressione” all’interno della quale persino il dissenso fa bene al capitale. Fa bene leggere Impero di Toni Negri, o discutere di Pasolini; negli anni sessanta Marcuse, con una felice espressione la chiamava con un ossimoro tolleranza repressiva.
Che fare? Per prima cosa essere consapevole del nesso che l’azione culturale rischia di avere con le ragioni del capitalismo, e poi riabilitare la tensione conoscitiva totalizzante che punti a non porsi quale particolarità settoriale, ma miri, infrangendo i codici disciplinari, a rispecchiare il movimento, sempre dinamico, sempre costante del tutto. Produrre un’idea di cultura del tutto antitetica al mantra culturale contemporaneo. Un esempio? Francesco Orlando, non certo un intellettuale impegnato, ma che del testo è capace di svelare le ragioni più profonde, quanto c’è di universale e sul suo rapporto col mondo. E così pure per la saggistica di Debenedetti, Timpanaro, Cases, De Castris, e aggiungerei Solmi e Fortini e dei più giovani Luperini, Berardinelli, che anche quando esibivano la propria identità irrinunciabile di intellettuali o di scrittori, non si può non riconoscere nelle loro pagine, un legame sempre vivo tra la loro parzialità di lettori e la verifica sociale di un qualche destinatario.
Fortini, 1994
Composita solvantur uscì nel 1994 l’anno della morte di Fortini. Il 5 marzo di quell’anno in un intervista rilasciata a Claudio Altarocca su Tuttolibri della Stampa di Torino, prendeva atto della sconfitta politica del marxismo critico. Il 1994 è l’anno della fondazione di Forza Italia e la vittoria di Silvio Berlusconi, che dava vita ad un potere mediatico e trasversale capace di estendere il suo dominio anche su quei ceti da sempre rappresentati dalla sinistra. Lui è stato bravo ma l’intellettualità di sinistra ci ha messo molto del suo. Negli anni ’80 erano diventati tutti nietzschiani e heidegeriani compresi i corifei del ribellismo del 1977. In una recente intervista ad Antonio Gnoli su la Repubblica, Luperini ricordava con sofferenza del riposizionamento degli intellettuali italiani agli inizi degli anni ’80, parole che riecheggiano il sarcasmo con cui Fortini in 10 inverni,1947/1957 bollava le conversioni degli intellettuali nel secondo dopoguerra.
Composita solvantur, a detta di Marco Gatto, ricongiunge gran parte delle questioni affrontate da Fortini nella sua carriera:
- esprimere nel linguaggio poetico la contraddizione fra arte e dialettica;
- la dimensione etica della scelta per il comunismo
- l’appello fortemente politico, rivolto ai giovani, i futuri subalterni, da parte di un “fatuo vecchio”: “Proteggete le nostre verità” che a sua volta apre un altro tema Fortiniano, quello dell’avvicendarsi delle generazioni e del rapporto con l’autorità.
Di grande impatto le poesie sugli animali, sulla lotta per la vita e sui limiti imposti all’uomo dalla sua conformazione naturale, che ribadisce una prospettiva anti-metafisica e anti-messianica, più la prima che la seconda, sottolineata da uno dei versi più forti della raccolta: “Paradiso non c’è e tu non crederci”.
Nella poesia di Fortini, Guido Mazzoni rileva che la lontananza da noi è il sintomo di una trasformazione epocale, il genere poetico non trova più cittadinanza, perché si è spenta la sua funzione civile, la sua azione demistificante.
Per Luperini, acquisendo la forma dell’utopia, il testo assolve quella necessità- dovere di dimostrare una possibile alternativa. Demistificazione dell’ideologia dominante e momento utopico sono le due facce, e insieme i due fini, del testo letterario.
Nella seconda parte del saggio si chiede a cosa sono chiamati gli intellettuali in Italia e in Occidente quando si mette a tema la ricostruzione dei nessi, dei legami del senso? (la semiologia si è interessata al segno, alla semantica e/o alla sintassi, nota la polemica tra Eco e Chomski su questi due elementi, ma poco al senso).
Raccogliendo uno dei lasciti della riflessione fortiniana, l’autore sostiene che solo la teorizzazione può contribuire a ricostruire alfabeti comuni e, a demistificare la strumentalità degli alfabeti parziali e restrittivi; solo la teoria può offrirci la possibilità di ricercare nessi sociali alternativi. La critica senza teoria rischia di ridursi a mera manifestazione occasionale dei propri gusti, senza che, entro il giudizio, vi sia un rimando all’esistente o a una scelta di campo.
Il critico, l’intellettuale, l’umanista dovrebbe essere, particolarmente oggi, colui che si oppone alla frammentazione imposta dal tardo capitalismo.
Ricostruire il senso: questo il suo compito. Per fare questo è chiamato ad accettare la sua subalternità e ad ammettere la sua scomparsa sociale, unendosi a chi oggi sconta questo stesso destino di esule, perché escluso dal consumo e quindi da forme di rappresentanza. Il lavoro dell’intellettuale militante ha senso solo se si lega ad una nuova proposta democratica, capace di opporsi alla perdurante restrizione dei diritti. E in questa prospettiva Fortini costituisce una lettura imprescindibile, e, aggiungo io, anche Marco Gatto e i suoi saggi.
Giuseppe Costantino