A proposito del recente avvenimento di violenza gratuita e inaudita di cui si è macchiato un cosiddetto “membro della società civile” nei confronti di un immigrato extra-comunitario, che chiedeva l’elemosina, uccidendolo proditoriamente e davanti agli occhi di curiosi che filmavano la macabra scena, colpevoli quanto l’assassino se non di più, per aver con la loro vigliaccheria permesso che fosse compiuto l’atroce delitto, desidero porre all’attenzione dei lettori del nostro sito un paio di considerazioni di due amici che hanno messo in evidenza, ognuno secondo il proprio sentire, quanto pesante sia per tutti noi la colpa di avvenimenti di tal genere e come in altri tempi, nel tanto vituperato regno di Napoli, si sia tentato di provvedere ai bisogni dei più sfortunati. Gli elaborati che seguono sono di Franco Petramala e Peppino Aloise. Vi prego di meditare su quel che leggerete e di essere meno definitivi quando si esprimono giudizi sulla problematica dell’immigrazione, chi ci ascolta spesso non ha la capacità di ragionare in modo equanime, travisa fatti e parole e magari il tutto può sfociare in atti di violenza assurda contro la persona più indifesa, come nel caso di Alika, massacrato su di un marciapiede. L’assassino ora chiede scusa, troppo facile diremo, ma siamo sicuri che a chieder scusa non dovremmo essere tutti noi?
Edipo Re ed Alika il Nigeriano
Era un suo venerdì come tanti altri, egli era rassegnato triste con qualche residua speranza, pietoso arrampicato alla stampella. Eppur sospetto come chiunque chieda l’elemosina e senza la protezione antica del sagrato di una Chiesa!
Un Edipo si sente insolentito, presago della colpa che pure non c’è ancora, strattona il mendico come fece il Tebano con Tiresia. Ma Tiresia reagisce ed aggredisce con la parola, conoscendo il passato di lui e il futuro come solamente in pochi mostrano di percepire. Il Nigeriano Alika, ambulante per necessità ed elemosinante per le strade marchigiane, aggredito cade e con ciò non si salva.
Il sospetto straniero che già tale era perché elemosinante si conferma sospetto proprio perché cade, del tutto impotente ed indifeso, senza più nemmeno il sostegno della stampella. Si mostra così, unica, l’occasione per il furioso piacere di uccidere a mani nude davanti a tutti. Invece che un Nigeriano adulto, fosse stato un bambino intollerabile elemosinante, non sarebbe stato diverso!
Tanto, la colpa sarebbe ricaduta come è ricaduta su tutti noi, mentre in tanti assistevano e nel frattempo, indignata ma molto distante e solamente di dentro e mugugnata, risuonava l’univoca voce disperata del Coro.
Franco Petramala
Alika il Nigeriano
In un recente “fondino” dal titolo “Edipo Re ed Alika il Nigeriano “, Franco Petramala, da par suo, formula sintetiche ma efficaci riflessioni sul caso dell'uccisione di Alika.
Mi ha colpito in particolare, il richiamo allo straniero elemosinante “eppur sospetto come chiunque chieda l’elemosina e senza la protezione antica del sagrato di una Chiesa!”.
Questa affermazione racchiude in sé una storia lunghissima sul cosiddetto privilegio del foro e dell'asilo connesso all'immunità ecclesiastica che nell'età carolingia acquista una formale definizione giuridica.
Per evitare l'abuso di tali privilegi che impedivano che i “confugiati” potessero venire estratti violentemente dai luoghi sui cui si esercitava la competenza ecclesiastica, nel 1591 Gregorio XIV con la Bolla Cum Alias Nonnullis, escluse ufficialmente dall’immunità ecclesiastica gli assaltatori di strada, i “publici latrones”, gli eretici, i traditori o coloro che avevano commesso omicidi o mutilazioni.
Nel regno di Spagna, tuttavia, la bolla non venne mai ufficialmente pubblicata e quindi non venne mai applicata.
Il diritto di asilo veniva accordato di fatto a tutti coloro che si fossero trovati all'interno di un luogo sacro.
Il sagrato era una pertinenza del luogo sacro e quindi l'elemosinante sospetto straniero non poteva essere “estratto” perché godeva di un diritto particolare, il diritto di asilo appunto, che era un diritto “ratione loci” e non già “intuitu personae”.
Bisogna aspettare l'approvazione delle “Leggi Siccardi “nel 1850 nel Regno Sabaudo per porre fine ad alcuni privilegi tradizionali della Chiesa, che erano incompatibili con l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla Legge, sancita dall'art 24 dello Statuto Albertino.
Cosi fu soppresso il privilegio del “foro” ecclesiastico in base al quale i membri della Chiesa non potevano essere giudicati dalla giurisdizione laica e venne abolito il diritto di asilo che aveva garantito impunità a chiunque avesse commesso un delitto se andava a rifugiarsi in una chiesa o in un monastero.
Ed ancora, le riflessioni di Franco Petramala, quanto all'elemosina, sollecitano alcune considerazioni di tipo religioso.
Sotto questo profilo occorre preliminarmente sottolineare che nella Bibbia, come ci ricorda Papa Francesco, troviamo la parola greca eleemosyne, da eleos, che vuol dire compassione e misericordia. Ed ancora Papa Francesco non manca di ricordarci che “Ci sono pagine importanti nell’Antico Testamento, dove Dio esige un’attenzione particolare per i poveri che, di volta in volta, sono i nullatenenti, gli stranieri, gli orfani e le vedove. E nella Bibbia questo è un ritornello continuo: il bisognoso, la vedova, lo straniero, l’orfano…»
Nell'Islam l'elemosina assurge a precetto coranico ed ha una funzione significativa. Ed infatti, con il termine Zakat , che significa letteralmente “purificazione”, si intende “ l'obbligo religioso prescritto dal Corano di purificazione della propria ricchezza”.
L'elemosina rituale è un tributo che il fedele musulmano è chiamato a versare alla comunità in rapporto alla propria ricchezza. Un vero credente non può sottrarsi a questo obbligo che è esplicitato dalla Sunna del Profeta. Chi rifiuta l'elemosina, la carità, il tributo rifiuta la fede. La Zakat è uno dei cinque pilastri dell'Islam accanto al digiuno del mese del Ramadan, al Pellegrinaggio alla Mecca, alle preghiere quotidiane e alla Professione di Fede, alla “Testimonianza”.
Ma non sono inopportune, proprio per gli stimoli che suscitano i messaggi del fondino; ulteriori considerazioni sulle forme assistenziali del passato, in particolare nel Regno di Napoli, che presentano tratti di grande attualità nel momento in cui si discute di reddito di cittadinanza e lotta alla povertà. Anche perché l’amico Franco evoca per l'elemosinante “il sostegno della stampella”.
Quando Carlo III di Borbone diede l'avvio alla costruzione del Real Albergo dei Poveri, una delle più grandi costruzioni del settecento in Europa, si pensò ad un progetto di “razionalità caritativa” che consisteva in un processo di educazione e formazione al lavoro dei poveri.
Giuseppe Maria Galanti, volendo esaltare a fine settecento il progetto del Real Albergo dei Poveri cosi si espresse: “le belle case per li poveri sono quelle, in cui si lavora; ove imparano un mestiere, la religione e la buona morale; ove si provvede coll’educazione de’ fanciulli a formare buoni cittadini”.
La lotta alla povertà per Galanti doveva caratterizzarsi con un piano di interventi che andassero oltre l'assistenza dovendo far ricorso all'educazione, alla formazione professionale e soprattutto al lavoro.
Nella prima metà del cinquecento a Napoli con la prima prammatica De Vagabundis seu erronibus si introdusse la condanna, con la carcerazione, degli oziosi e l'espulsione dei vagabondi forestieri...
Nel 1751 Carlo di Borbone ripubblicò ed aggiornò la Prammatica con la quale si condannavano “i falsi mendicanti in abito da pellegrino, gli oziosi, i vagabondi, i forestieri che per la vaghezza e fertilità del sito e l'abbondanza dei viveri sono allettati a concorrervi e farci dimora”. Le migrazioni del 2000 verso le terre ove abbonda il cibo non sono una novità. La Napoli del settecento, la seconda metropoli dell'Europa dopo Parigi, aveva una notevole forza attrattiva per mendicanti e lazzari.
Ma Carlo di Borbone capì che non bastava condannare “vagabundi, erroni, birboni, ganeoni, nebuloni, cingani e mendicanti” e che il fenomeno non poteva ridursi a mero problema di polizia e di repressione.
Carlo III era impressionato dalla miseria che si coglieva per le strade di Napoli dove gli elemosinanti erano lasciati alla carità dei passanti e sentiva anche il bisogno di rendere meno sgradevole il paesaggio cittadino allontanando dalla strada una presenza umana che appannava l'immagine di una città che doveva gareggiare con le altre capitali europee.
Di qui l'idea della costruzione di un grande edificio: con il Decreto del 25 febbraio 1751 Carlo di Borbone affermava che “abbiamo deliberato di erigere l'Albergo dei poveri di ogni sesso ed età e di quivi introdurre le proprie e necessarie arti, affinché tal opera riesca grata agli occhi di Dio e di beneficio a questa Città e Regno...”.
La condizione per l'ammissione era una sola: la povertà. Ma secondo la cultura più avveduta del tempo gli oziosi non solo diventavano inutili ma erano anche un pericolo per la sicurezza pubblica e di qui la necessità di apprendere le arti e di incentivare la formazione professionale.
Per gli inabili alla fatica, ovvero per quelli che si reggevano sulla stampella come Alika, il Sovrano garantiva la sua personale e “commossa pietà”.
Le calamità naturali, le carestie, le guerre, la Rivoluzione del 1799, la conquista dei Francesi e la crisi finanziaria del Regno ritardarono la costruzione dell'edificio ed il concreto avvio dei programmi di lotta alla povertà.
Ad un edificio che venne immaginato da Carlo III come luogo di “sublimazione morale” non poteva non corrispondere una sorta di “Estetica della Povertà”. Il Progetto dell'Architetto fiorentino Ferdinando Fuga, realizzato solo in parte, in corso di ristrutturazione, testimonia uno sforzo anche culturale di lotta alla povertà.
Le recenti polemiche sul reddito di cittadinanza ripropongono intatte le tematiche del ‘700 napoletano!
Peppino Aloise