Lo so, lo so, a chi vuoi che importi qualche ricordo di un passato personale, parecchio lontano nel tempo? Eppure ho voglia di scriverlo, magari solo per dimostrare a me stesso che ancora ci sono, almeno col cervello. Il tutto nasce per caso, come quasi sempre, almeno per me. Giorni fa, percorrendo lentamente in auto – cercavo un indirizzo – una strada di una località turistica delle nostre parti, vidi un giovane, dall’apparenza asiatico, forse indiano o pakistano, che, chinato sul marciapiede tirava via con le mani alcune erbacce che erano spuntate vicino al muro di cinta di un albergo. Mi fermai a bordo strada e lo osservai per qualche minuto, svolgeva il compito che gli era stato dato dal suo datore di lavoro – probabilmente l’albergatore – con tranquillità, forse con rassegnazione, chissà chi era, da dove veniva, se era istruito o analfabeta o così-così? Guardandolo mi venne in mente un episodio occorsomi in una delle mie vite passate. Esattamente quando per sbarcare il lunario in un paese straniero mi ritrovai a fare l’operaio in una fabbrica di metalmeccanica. Che c’entravo io con la metalmeccanica? Ancora oggi me lo chiedo, ma allora mi toccò e lo feci per qualche mese. Con me v’era un giovane napoletano simpatico, Francesco, appena maggiorenne che, non so perché, mi si era appiccicato addosso e pedissequamente mi seguiva in tutto e per tutto. Lo avevo conosciuto in un’altra attività lavorativa e quando decisi di provarne una nuova, mi seguì senza tante chiacchiere. Ero più anziano di lui di circa 10 anni. Ci presentammo insieme dal direttore con il foglietto del giornale locale con l’annuncio di richiesta di personale. Mentendo spudoratamente, dicemmo che avevamo già svolto quel lavoro e, stante la penuria di operai in quel settore, fummo ingaggiati in prova senza tanti complimenti. Il lavoro era faticoso ma non difficile, era necessaria un po’ di attenzione con delle presse gigantesche e smartellare di continuo, ma niente che non fossimo in grado di eseguire, azioni semplici che per molti altri nostri connazionali, provenienti per lo più dalla campagna, purtroppo, apparivano difficoltose. Dopo un paio di settimane fummo chiamati in direzione ed elogiati perché avevamo subito afferrato la tecnica di quel lavoro. Ci proposero un contratto definitivo con un salario superiore alla media. Ci pregarono di non fare parola di questo, per non suscitare ira e invidia negli altri operai. Quasi tutti italiani, dalla Sicilia alle Alpi, di tutto e di più. E’ necessario precisare che nel reparto dove eravamo stati inseriti, per essere spronati a lavorare e rendere di più, vigeva la regola del “cottimo collettivo”, vi garantisco che è la formula contrattuale più abbietta che possa esistere, perché ogni operaio diventava il “guardiano” o l’aguzzino degli altri. Funzionava così: La somma delle ore impiegate individualmente per portare a termine un determinato lavoro doveva essere inferiore ad un tempo stabilito in precedenza dalla direzione. Ovviamente le ore “risparmiate” con il contributo di ogni operaio venivano pagate in aggiunta al salario e distribuite equamente fra tutti. Bastava, però, che uno o due operai battessero la fiacca per non riuscire a farcela. Il luogo dove si lavorava era costituito da un enorme capannone quadrato, i diversi macchinari erano posizionati lungo le pareti ed al centro campeggiava una specie di gabbiotto con le pareti in vetro che si innalzava al di sopra dei lavoranti in modo che il “kapò”, dalla sua scrivania, girando lo sguardo a 360° poteva tenere sotto controllo visivo tutto ciò che accadeva in basso.
Tutti si davano da fare con mazze e martelli mentre Francesco ed io lavoravamo con calma senza affannarci troppo, anzi ogni tanto utilizzavamo lo sgabello in ferro che ognuno aveva in dotazione, ma che nessuno usava, per rilassarci. Immancabilmente il Kapo scendeva dalla sua postazione e ci esortava a riprendere il lavoro.
Un giorno uno dei momentanei “colleghi”, un siciliano piccolo e tracagnotto, durante una delle nostre pause, ci richiamò perché, secondo lui, col nostro atteggiamento lassista danneggiavamo tutti gli altri. Stavo per replicare, quando Franz mi anticipò e con quel sorrisetto beffardo che faceva incazzare gli rispose: Uhé guaglio’ a nui ch ci n’importa, ci vastano i sordi chi ci ranno, ci ni futtimm do cottim”.(Uhé bel giovane, a noi non importa, ci bastano i soldi che ci danno, ce ne fottiamo del cottimo) Da questa frase nacque un battibecco durante il quale saltò fuori la paga che noi ricevavamo, molto più alta di quella degli altri. La discesa del kapo chiuse la discussione con l’impegno da parte dei due contendenti di far vedere a tutti alla prima occasione la propria busta paga. All’epoca il salario lo si riceveva direttamente dalle mani del direttore che, ogni 15 giorni, passava fra noi e, coadiuvato da una sculettante donzella segretaria con tanto di minigonna, ci consegnava la mitica busta gialla col danaro e il resoconto delle ore. A proposito, ricordo che qualcuno ricevendo la busta accennava anche ad una specie di inchino ringraziando!.
Appena finita la distribuzione, il sicilianuzzu scese dalla specie di palchetto su cui lavorava (necessario per la sua statura che non gli permetteva di manovrare agevolmente una macchina gigantesca) e sventolando la sua bustapaga sotto il naso di Franz lo incitava a rispettare la promessa fatta, senza però lasciar leggere il contenuto della sua. A quel punto Franz, col suo solito fare “guasconesco”, tirò fuori il foglietto del salario e glielo lanciò letteralmente in faccia. “Minchia, minchia, minchia”, comincio a gridare il siculo: “a mia chi travagghiu ccani a decianni, dduje franchi i menu” (a me che lavoro qui da 10 anni, 2 franchi in meno – all’ora) e cominciò una sarabanda folle buttando per aria martelli, tenaglie e tutto quello che gli capitava fra le mani. Così tutti seppero del nostro accordo segreto con la direzione, che fu costretta ad allontanarci dalla sala macchine. Il direttore ci fece una breve paternale e seduta stante ci licenziò. Ci diede i due mesi di preavviso come da contratto. Ma non volendo lasciarci ancora con gli altri tutto quel tempo, ci assegnò un incarico tutto sommato leggero; strappare le erbacce dai vialetti di un giardinetto interno al complesso industriale e raccogliere delle ciliegie (eravamo a giugno) da una decina di alberi sistemandole in dei graziosi cestini ornati con simpatiche coccarde colorate che dovevano finire sulle tavole dei dirigenti. Ci organizzammo subito, dopo aver strappato le poche erbacce (in Svizzera quasi inesistenti) decidemmo che Franz sarebbe salito sugli alberi ed io, da sotto, avrei preso al volo le ciliegie da sistemare nei cestini. Potete facilmente immaginare con quale precisione avveniva l’operazione di lancio e di ricezione. Spesso tentavo di prendere direttamente in bocca qualche ciliegia, ma la maggior parte finivano sul prato e più tardi le raccoglievamo, scherzando fra di noi. Tutto ciò procurava l’ira di chi dai finestroni ci vedeva, operai compresi, quindi il direttore dopo una settimana ci liquidò i due mesi e noi ce ne andammo a cercar di meglio. Francesco poi mi confessò candidamente che in alcuni di quei cestini ci aveva pure pisciato, lo guardai con fare serio e lo rimbrottai: “strunz si m’avissi ritt, facìeme pur na bella macedonia con gusto misto”. La prima settimana ce la spassammo a Zurigo, poi andammo ognuno per la propria strada. Francesco trovò lavoro come tornitore, era quello il suo mestiere, io mi dedicai completamente alla musica con la band per alcuni mesi e all’insegnamento serale nei corsi organizzati dal nostro ministero per gli italiani che non avevano frequentato le medie, poi ... ma questa è un’altra storia… per ora mi fermo qui. Tutto questo ricordavo mentre guardavo lo straniero che con grande diligenza strappava le erbacce a mani nude, lui però non aveva ciliegie da raccogliere, peccato.
Tonino Cavallaro